Il racconto. L'esodo dei centomila verso Erbil
Arrivano e partono, a migliaia. Gli abitanti di Mosul vagano come anime in pena, stipati in auto cariche senza aria condizionata. La fila a Kasar, punto di frontiera con il Kurdistan iracheno è chilometrica. Famiglie, merci e tantissimi camion benzina che tornano vuoti da Mosul, presa con violenza dalle milizie dello Stato islamico dell’Iraq e della Siria (l’Isis) mercoledì scorso. Al momento la città, la seconda più popolosa dell’Iraq, è a corto di tutto, spiega l’esercito curdo dei peshmerga, e da Erbil – che dista una trentina di chilometri – partono i rifornimenti di acqua, cibo e benzina.I soldati indossano la divisa con orgoglio, finalmente hanno la loro regione autonoma, il Kurdistan iracheno di cui Erbil è capitale, ma formalmente, e sostanzialmente, l’indipendenza non è totale, si usa la stessa moneta e i problemi iracheni sono anche faccende personali. Per questo, i peshmerga si sono immediatamente schierati dalla parte dell’esercito iracheno guidato in modo poco efficiente dal premier Nuri al-Maliki, davvero molto impopolare nella zona. La nuova guerra tra sunniti e sciiti sembra essere un’occasione ghiotta per spingersi alla conquista delle zone irachene a prevalenza curda come Kirkuk e magari, chissà, espandere il Kurdistan verso sud. Ma per il momento la preoccupazione resta Mosul, perché là manca tutto e anche per questo i profughi continuano ad arrivare. Seppure sono molti quelli che tornano. Gli sfollati che hanno deciso di rincasare a Mosul, sotto il controllo degli jihadisti, conoscono bene il fondamentalismo religioso e la legge del taglione. L’Isis non è certo il primo gruppo di estremisti islamici che combatte in Iraq. Nessuno avanza analisi verso gli jihadisti, gli abitanti di Mosul a prevalenza sunnita sanno che questi «nuovi tagliagole» non sono altro che l’ennesima forma di «resistenza» scelta dai sunniti locali per rovesciare il governo «corrotto e clientelare», del premier sciita Nuri al Maliki «imposto dagli americani». Il timore reale di chi resta nel campo profughi di Kasar, però, è che scoppi una vera e propria guerra civile non solo tra sciiti e sunniti ma anche tra i sunniti pro Saddam Hussein, che hanno aperto le porte all’Isis, e che presto potrebbero litigare per il controllo del territorio (proprio come accaduto in Siria). La lotta intestina tra l’Isis e altri gruppi jihadisti sunniti in Siria, ha già spinto quasi mezzo milione di abitanti del nord-est del Paese alla fuga. Come ricorda Clement Roquette, responsabile dell’Organizzazione non governativa Acted, attiva nel campo profughi di Kasar a Erbil: «Non bisogna dimenticare che il Kurdistan iracheno ospita già 220mila profughi siriani», spiega. Secondo i dati ufficiali dell’Acnur, sono invece 100mila i nuovi profughi iracheni a Erbil. Letteralmente vengono chiamati «sfollati» perché ospitati comunque in territorio iracheno. Molte persone sono andate da amici e parenti residenti in città, nelle tende allestite dall’Acnur vivono solo 123 famiglie, ovvero 650 persone. Il perché lo si scopre facilmente sul posto. Deserto, polvere, 42 gradi, 10 latrine e otto punti acqua. L’afa afferra la gola e i bambini non hanno niente con cui giocare a parte le bottiglie di plastica vuote a terra. «La capacità di accoglienza del campo è per massimo 200 famiglie – conclude Roquette – se l’afflusso dovesse aumentare questo campo provvisorio potrebbe essere trasformato in permanente». Un’anziana donna racconta la sua fuga: «Sono povera e malata – dice con coprendosi il volto – ho tanti nipoti e un figlio disabile, non posso vivere un’altra guerra a Mosul. Non ho i soldi per affrontarla». È caro il costo del conflitto per i civili, i prezzi dei beni di prima necessità in due giorni sarebbero già raddoppiati. Il figlio disabile si gratta la testa appollaiato in un angolo della tenda, pochi chili attaccati su ossa fragili, mostra segni evidenti di denutrizione. Verso l’ora di pranzo la distribuzione del cibo avviene in modo ordinato, non si litiga per il pane, anche se quella di Kasar è tutta povera gente, la classe media di Mosul viaggia coi vetri chiusi nelle auto rinfrescate dall’aria condizionata verso aeroporto di Erbil per poi volare ad Amman o altre destinazioni. «Non so come siano questi miliziani dell’Isis – racconta un padre di famiglia nella sua Toyota Corolla – ma non ci aspettiamo nulla di buono, andiamo dai nostri parenti in Giordania, come nel 2008, come nel 2003, come nel ’91». La guerra in Iraq viene raccontata dai suoi abitanti come un incubo ricorrente, un film dell’orrore già visto, con attori diversi ma con gli stessi risultati.