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L’intervista. La psicologa Castelli: «Solo se si sentono attivi può scattare la rinascita»

Luca Geronico lunedì 19 gennaio 2015
Venerdì scorso, Cristina Castelli ha inaugurato la nuova edizione del master "Relazioni d’aiuto in contesti di vulnerabilità e in post-emergenze nazionali e internazionali” dell’Università cattolica di Milano. Docente di psicologia del ciclo di vita, dirige il corso di specializzazione per formare degli operatori in grado di ricostruire percorsi e relazioni educative per le “generazioni bruciate”, come le centinaia di migliaia di minori da mesi profughi in Kurdistan, in assoluta deprivazione materiale e morale.Professoressa Castelli, da cosa partire per dare un futuro a questa «infanzia spezzata»?Nei miei studi ho lavorato molto sul concetto di resilienza, su come si può fare leva sulla capacità di ripresa delle persone che sono scampate a un trauma. Ci sono molteplici aspetti da considerare e anche molteplici punti di forza per poter riprendere un cammino. Molto importante è la possibilità sia della persona di chiedere aiuto, sia di avere qualcuno che gli offre la mano. Mi viene in mente la creazione di Adamo di Michelangelo nella volta della cappella Sistina: a Dio creatore che allunga il dito serve che anche l’uomo porga almeno un dito della mano. Le persone devono prima di tutto sentirsi attive: quindi togliere le persone da sentimenti di impotenza. Non la pura assistenza, ma offrire degli strumenti che facciano vedere la possibilità di uscire da questa situazione.Decisiva, per far scattare questo percorso, è quindi la presenza di quelli che lei chiama "tutori di resilienza", adulti capaci di avviare relazioni di aiuto. In questi contesti forse l’equivoco è di insistere molto solo sulla precarietà materiale mentre invece...Invece bisogna saper dare degli incoraggiamenti: è molto importante avere il sentimento di capacità, di autostima legato alla cultura di appartenenza. Si deve offrire la sensazione, a chi è sradicato, che il suo bagaglio che si è portato appresso, il suo difficile passato può servire culturalmente per uscire dal tunnel. Dove abbiamo operato, nei campi profughi in Libano e in Giordania, si lavora molto sulla loro narrazione, il riuscire a far raccontare. Così si esprime quello che è stato, che spesso non si vuole o non si riesce a esprimere e a fare da ponte con quello che si desidera per il futuro mentre il presente, spesso, è di totale dipendenza dagli aiuti.Come può avvenire tutto questo concretamente?Si utilizza la grafica, il disegno. Ad esempio facciamo disegnare un ombrello indicando cosa li ha maggiormente colpiti e sotto l’ombrello cosa li ha riparati. Il fattore di protezione molto importante sono la famiglia e Dio, la religione. Sapendo quali sono i fattori protettivi, noi poi sviluppiamo quelli, ad esempio responsabilizzando, lavorando molto sui nuclei familiari.Per concludere, in un kit scolastico delle ong, assieme a quaderni e pastelli cosa suggerisce allora di mettere?Delle fiabe locali: in tutte le culture c’è sempre un protagonista che, abbandonato o lottando contro l’orco, trova la “fata-tutore di resilienza” che lo aiuta. Ma alla fine è il protagonista che sposa la principessa.