Il Kosovo albanese finisce a Mitrovica sud. Dall’altro lato del fiume Ibar comincia un altro mondo. Un anno fa i serbi del Kosovo avevano annunciato vendetta per lo strappo compiuto dalle autorità di Pristina. La dichiarazione d’indipendenza qui non è stata mai digerita. Ismet, il nostro autista albanese, ci lascia all’ingresso sud del ponte di questa città simbolicamente divisa in due. 'Io dall’altro lato non ci vado - dice Ismet - è troppo pericoloso, soprattutto con una targa del Kosovo'. I due mondi sono divisi da una cinquantina metri che attraversiamo a piedi sotto l’occhio piuttosto distratto di militari e gendarmi francesi e della polizia kosovara. Sulla piazza centrale di Mitrovica nord sono riuniti qualche migliaio di serbi. 'Javier Solana, fascista', ci grida un anziano mentre ci avviciniamo al luogo della manifestazione. Parole che con altri toni vengono pronunciate dai loro leader: parlano di terrorismo albanese, di colonialismo della Nato, presente qui con 15 mila unità, e dell’Unione europea che, con la nuova missione Eulex, dallo scorso dicembre ha sostituito le Nazioni Unite nei compiti di polizia, giustizia e controllo doganale.
Il paradosso spagnolo A oggi sono 54 i Paesi che hanno riconosciuto l’indipendenza del Kosovo. Ci sono gli Stati Uniti e 22 dei 27 paesi dell’Unione europea. I governi europei che hanno rifiutato di riconoscere il Kosovo sono quelli che devono fare i conti con spinte separatiste, come Spagna, Romania o Cipro. Una posizione che non ha impedito però a questi paesi di continuare a partecipare alle missioni civili e militari in Kosovo. Paradossalmente, l’esercito spagnolo, congiuntamente con i nostri carabinieri, sorveglia il principale posto di frontiera tra la Serbia e il Kosovo, 50 km a nord di Mitrovica. Una frontiera che il governo di Madrid ufficialmente non riconosce. La polizia dell’Eulex ha per il momento assunto il controllo di due valichi. A Mitrovica nord riusciamo a trovare un autista serbo che accetta di portarci al 'cancello 31' a Zubin Potok. Nel bel mezzo delle colline gli agenti europei controllano documenti e le merci trasportate dai camion: qui si cerca di com- battere il contrabbando e di raccogliere i dazi doganali essenziali per il magro bilancio del Kosovo. «Questi posti di frontiera – ci spiega Christophe Lamfalussy, portavoce di Eulex – sono stati incendiati il 19 febbraio 2008, due giorni dopo la dichiarazione d’indipendenza da parte di Pristina. La situazione quindi è estremamente delicata e fragile, anche se negli ultimi tempi i serbi si sono limitati a manifestare pacificamente. Noi stiamo cercando di ristabilire lo stato di diritto e non è nostra intenzione bruciare le tappe». Un anno dopo l’Europa non è ancora riuscita a pacificare il Kosovo. Anche se è stato evitato quello che molti temevano e altri forse auspicavano: una guerra civile tra serbi e albanesi e una divisione in due della provincia con l’estremo nord lasciato alla Serbia. Belgrado ha commentato il primo anniversario della proclamazione unilaterale d’indipendenza con parole molto eloquenti. Il ministro degli esteri serbo Vuk Jeremic ha detto che il 17 febbraio 2008 è 'una data senza importanza della quale presto più nessuno si ricorderà'. E il presidente Boris Tadic, dopo aver ricordato che 'la Serbia non riconoscerà mai l’indipendenza del Kosovo', ha aggiunto che 'un anno dopo è chiaro a tutti che il Kosovo non è uno Stato'.
Cambia il volto di Pristina Per il momento il governo di Pristina, guidato da Hashimi Thaci ex leader politico dell’UCK, l’esercito di liberazione del Kosovo, va avanti per la sua strada. In accordo con il piano Ahtisaari e sotto la supervisione della Nato ha dato vita alla Kosovo Security Force (KSF), la nuova forza di sicurezza che potrebbe costituire la prima tappa verso un esercito nazionale kosovaro. Le infrastrutture stanno migliorando e nell’ultimo anno è cominciata la costruzione di strade a scorrimento veloce di edifici moderni che stanno cambiando il volto di Pristina. La capitale kosovara sta cercando di togliersi di dosso l’immagine di città triste e inospitale. Il centro è pieno di ristoranti di livello occidentale dai prezzi irrisori e le nuove iniziative commerciali, bar, negozi e grandi magazzini, si moltiplicano. Una sorta di ottimismo che dopo l’indipendenza ha contagiato la popolazione albanese. Niente a che vedere con la vita nelle enclavi serbe dove esiste una disoccupazione di massa. A qualche chilometro da Pristina, a Gracanica, la comunità di qualche migliaio di persone raggruppata intorno al famoso monastero ortodosso, vive in una condizione di quasi indigenza. La diffidenza è palpabile verso qualunque presenza esterna. E le domande vengono respinte con un «non abbiamo niente da dire». Due ragazzi accettano di rispondere. Mladen, 18 anni, ha sempre vissuto qui e ora passa le sue giornate per strada. 'Non è cambiato molto in un anno - ci dice - . A parte forse che ci sono meno serbi. Molti dei miei amici hanno lasciato Gracanica per andare in Serbia. Ma lassù non è che si stia meglio e allora qualcuno è ritornato'. Dragan, 19 anni, è invece uno di quelli che l’Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni unite qualifica come sfollati interni. «Io vivevo a Pristina – ci spiega –. Ma gli albanesi ci hanno costretto a partire, nel 2004, quando sono scoppiate le violenze interetniche. Da allora nessun serbo osa ritornarci».
Il rifugio delle enclave È questo uno dei nodi centrali del problema kosovaro attuale. Nonostante gli annunci sbandierati dal governo Thaci di voler costruire un Kosovo multietnico, la tensione tra serbi e albanesi resta viva. La minoranza serba per paura di rappresaglie resta nel territorio sicuro delle enclave rinunciando a qualsiasi possibilità di inserimento sociale e guadagno economico altrove. Quasi dieci anni dopo la fine della guerra del Kosovo, che ha fatto migliaia di vittime, le ferite sono ancora aperte e a volte riemergono alla luce del giorno. L’'Unità per le persone scomparse' a Pristina è ancora alla ricerca di 1918 individui dei quali si sono perse le tracce prima del 1999. Nei container refrigerati delle Nazioni unite sono conservati quattrocento resti di corpi ai quali si tenta di dare un nome . Gli ultimi sono stati ritrovati lo scorso dicembre proprio nei dintorni di Gratanica. Delle ossa che portano chiari i segni di un’esecuzione.