Corea del Nord. Kim adesso rischia la bancarotta per i bitcoin rubati dai suoi hacker
Il leader coreano Kim Jong-un con la figlia Ju-ae
Non è un mistero che in 74 anni di “regno eremita” l’unica dinastia comunista della storia sia ricorsa a metodi creativi per finanziare la propria stabilità al potere. Valigie diplomatiche cariche di denaro falso o droga passate con noncuranza attraverso ogni frontiera, balzelli estorti alle comunità nordcoreane all’estero, migliaia di lavoratori inviati nei Paesi amici a titolo pressoché gratuito (per loro, non per il regime), vendita di armi e tecnologia militare aggirando o forzando le continue sanzioni e il Diritto internazionale, traffici di ogni genere dal riciclaggio al furto di dati. E se un missile a corto raggio costa tra i due e i tre milioni di dollari, lo sfoggio di potenza di fuoco degli ultimi mesi potrebbe avere portato anche in un solo giorno a bruciare letteralmente tra 50 e 75 milioni di dollari. L’equivalente del valore dell’export di riso verso la Corea del Nord dichiarato nel 2019 dall’Amministrazione delle dogane cinesi. In definitiva, cibo tolto dalla bocca di 23 milioni di nordcoreani che sopravvivono in buona parte per la benevolenza del vicino alleato cinese e per gli aiuti dall’estero che le sanzioni, inasprite a seguito dei recenti lanci, hanno ridotto a un rivolo.
Come un Paese che ha un saldo di -0,68% valutando il Pil da 1990 al 2020, con una ricchezza prodotta stimata quest’anno in 19 miliardi di dollari, detratti i costi della “dinastia”, del sistema pubblico e di quasi due milioni di uomini sotto le armi, è facile immaginare che il potenziale bellico continuamente ampliato e rinnovato necessiti di fondi sulla carta inesistenti.
Da qui il ricorso a un “effettivo” stimato di almeno 6.000 hacker a disposizione dentro e fuori il Paese. Non è un segreto che il regime nordcoreano abbia investito negli ultimi 15 anni ingenti somme nel suo potenziale di criminalità informatica, per molti inattaccabile per entità e capacità, ricorrendo anche a gruppi come Lazarus, Apt38 e altri noti e temuti a livello mondiale.
Nel 2016 solo un errore di scrittura impedì a Lazarus di sottrarre un miliardo di dollari dalle casse della banca nazionale del Bangladesh. Si è rifatto negli anni successivi, impossessandosi tra gennaio 2017 e settembre 2018 di 551 milioni di dollari delle centrali di scambio di criptovalute e a cui sono seguiti altri 316 milioni dal 2019 al novembre 2020 e un miliardo quest’anno secondo la società Chainalysis.
Il confronto con i 142 milioni di dollari di valore stimato dell’export commerciale nordcoreano per il 2022 è impietoso. Tuttavia, nell’“ecosistema” delle criptovalute i cambiamenti ambientali possono essere repentini. Al punto che, stimano gli esperti, soltanto a giugno il valore di quanto sottratto dalla Corea del Nord potrebbe essere sceso dell’80-85 per cento in poche settimane. Il collasso, pochi giorni fa, di Ftx, terzo centro di scambio di criptovalute come consistenza, potrebbe avere eroso ulteriormente il vero valore di quanto nelle mani degli hacker e la crisi del sistema criptovalutario pare solo agli inizi.