Afghanistan. Kandahar, la città senza donne
Un raduno maschile al centro di Kandahar
«Il primo a scomparire è il contesto. Puoi guardare solo davanti, non vedi che cosa accade intorno a te. Poi, si affievolisce l’immagine frontale. I contorni si offuscano. La rete mescola colori e forme. Infine sparisci anche tu». La voce di Habebe fluisce attraverso il cotone azzurro del burqa. Impossibile intuirne i lineamenti: è solo un involucro di stoffa che cammina, a volte a fatica, sulle vie di pietra di Kandahar. Con la mano destra deve tenere uniti i due lembi di stoffa che lasciano libere le gambe, in modo da celarle. I passi, dunque, sono piccoli, l’equilibrio precario. Il velo integrale, che le copre faccia e corpo, non è un indumento pensato per percorrere lunghe distanze. Per correre. Per passeggiare con una borsa in mano. Per chi, come Habebe, deve farlo, ogni movimento diventa una lotta con le pieghe di stoffa. L’idea è proprio quella di scoraggiarne gli spostamenti, costringendola a ritirarsi in casa. A sparire, appunto.
Habebe è tra le poche, pochissime a preferire il tormento di tessuto all’immobilità domestica. Tutti i giorni, si presenta alla clinica privata fuori dal centro per svolgere la sua attività di ostetrica. Ufficialmente, non lo è. Avrebbe dovuto diplomarsi lo scorso autunno. «I taleban, però, hanno fatto prima…». In un’avanzata fulminea, nell’estate del 2021, gli studenti coranici hanno riconquistato il potere, perso vent’anni prima in seguito all’invasione occidentale. «I comandanti sono venuti a scuola, hanno preso le nostre prove finali e le hanno stracciate». Non hanno, però, potuto cancellare le sue competenze. E all’ospedale fanno comodo specie ora che, con il “nuovo corso”, molti professionisti hanno lasciato l’Afghanistan. «Così hanno accettato di farmi esercitare, senza stipendio». Altre due ex compagne di corso lavorano nello stesso reparto. Ovviamente gratis. Fanno gli stessi turni dei 15 infermieri pagati. O, almeno, cercano. Spesso sono costrette ad arrivare dopo o finire prima, in base alla disponibilità del “mahram”, il parente maschio che deve accompagnarle. Habebe ha provato ad andare da sola. «I taleban, però, mi hanno fatto un sacco di problemi». Quando l’hanno minacciata con il fucile ha smesso. Eppure si tratta di un diktat informale: l’accompagnatore è obbligatorio solo per le distanze superiori ai 75 chilometri.
Le donne sono ammesse ai parchi solo nei giorni espressamente riservati - Ansa
Kandahar, capitale spirituale dell’Emirato d’Afghanistan, dove i taleban hanno fatto la loro comparsa negli anni Novanta, non è territorio femminile. Non lo era nemmeno durante il governo democratico. La cultura pashutun, qua dominante, è fortemente patriarcale. E i taleban ne sono in qualche modo il frutto avvelenato, spuntato nel decennio di conflitto contro l’Urss – in cui gli islamisti erano sostenuti da Washington – e maturato nel caos feroce della successiva guerra civile. Proprio nella moschea di Jamil Omar di Kandahar, ora chiusa per lavori in corso, il mullah Omar, fondatore dei taleban, si è proclamato capo di tutti i credenti nell’islam, dando vita al primo Emirato, nel 1996. «Me lo ricordo bene. È stato durissimo. Ci hanno confinato in casa. Se uscivi, venivi pestata», racconta Najiba, 42 anni. Con il crollo del regime, nel 2001, però, perfino nell’ultraconservatrice Kandahar si era aperto qualche spiraglio. Le ragazze andavano da sole in centro, ai corsi di pc e inglese. Qualcuna si azzardava addirittura a fare jogging. Quasi nessuna delle ventenni portava più il burqa. «In Afghanistan c’è la tradizione del picnic. Noi ragazze li facevamo spesso – dice Leyla –. L’altro giorno abbiamo provato ma sono arrivati i taleban e ci hanno rimandate a casa». Di nuovo, ora, le donne sono evaporate dallo spazio pubblico, come l’acqua del fiume Loeeyll, sul cui letto di ciottoli i bimbi – ovviamente maschi – fanno volare gli aquiloni. Non ce ne sono nella piazza Eid Ga, dove s’innalza il palazzo del governo. Non nella centrale rotonda di Shahidan, dove sono sepolti quaranta mujaheddin morti combattendo i sovietici. Nemmeno allo Sha Bazar, il mercato principale. Possono venire a fare la spesa solo in casi eccezionali, purché accompagnate da un figlio. Neppure la preghiera comunitaria – prevista dall’islam – è loro consentita. Il venerdì non c’è un solo fedele di genere femminile nella grande moschea di Haji Fariq Jan. Né nella via di fronte, dove si ammassa la folla che non ha trovato posto all’interno e dove un taleban in divisa militare devia il flusso quotidiano di biciclette, carretti tirati da asini e auto scassate. Quando, a mezzogiorno, il canto del muezzin vibra nell’aria torrida del Sud afghano, il caos apparente si trasforma in una fila ordinata di uomini. Con un gesto, stendono i tappeti sull’asfalto bollente. I corpi si piegano all’unisono, ripetendo i gesti rituali. Sembrano un’unica entità, rigorosamente maschile. ì
Uomini si recano alla preghiera alla moschea di Kandahar - Ansa
Per trovare qualche donna – seppure coperta totalmente dal burqa – ci si deve inoltrare in uno dei tre “bazar femminili” dove si vendono cosmetici e abiti.
Non solo burqua e hijab – lunghi soprabiti – ma tuniche colorate che giovani e adulte indossano nell’intimità domestica, al riparo da occhi indiscreti.
Allora, mentre ricamano, si dipingono le mani con l’hennè e chiacchierano, la loro bellezza emerge libera. Ma Hebibe non vuole accontentarsi del recinto. All’ora stabilita si prepara per andare all’ospedale. Di tanto in tanto, a mo’ di protesta, sostituisce il burqa con hijab e mascherina, lasciando scoperti gli occhi. Formalmente è consentito ma, come si legge nei cartelli appesi per la città, il velo integrale è «raccomandato». «Appunto, raccomandato…», scherza Habebe mentre si fa lasciare dal fratello all’angolo della clinica. «Sono solo qualche centinaio di metri», gli dice per tranquillizzarlo. Ma il giovane resta a vigilare che i taleban non la insultino o la minaccino. «Perché rischiare – conclude Habebe –? Qualche passo di libertà è l’unica cosa che mi resta».