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Stati Uniti. Kamala Harris pronta a sfidare Trump. Ecco perché avrà la strada in salita

Andrea Lavazza giovedì 18 luglio 2024

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«Mi hanno insegnato che quando si vede un problema non ci si lamenta. Si va a fare qualcosa per risolverlo». Probabilmente sta nel non aver tenuto fede completamente a questa sua frase slogan il problema principale di Kamala Harris come potenziale candidato presidenziale. L'attuale vicepresidente degli Stati Uniti, che ancora nelle ultime ore il presidente Biden ha lodato come possibile suo erede mentre sta valutando se rinunciare alla corsa per un secondo mandato, deve fare i conti con un gradimento che non ha mai raggiunto altissimi livelli. Anzi, li ha visti calare durante i quattro anni (fino al gennaio 2025) in cui è stata la prima donna a occupare la seconda più importante carica negli Stati Uniti, nonché la prima afroamericana e la prima asiatica americana in quella posizione, essendo nata il 20 ottobre 1964 in California, da madre indiana Tamil e padre giamaicano.

Harris ha frequentato la Howard University e la University of California, Hastings College of the Law. È diventata poi procuratrice distrettuale di San Francisco (2004-2011), anche in questo prima donna e prima afroamericana in questa posizione. Successivamente, è stata procuratrice generale della California per due mandati (2011-2017), ancora una volta infrangendo le barriere di prima donna e prima afroamericana a raggiungere tale obiettivo.

Harris è stata quindi eletta al Senato degli Stati Uniti nel 2016, durante il suo mandato ha fatto parte di diverse commissioni, tra cui la commissione Giustizia, dove si è guadagnata l'attenzione nazionale per le sue domande su funzionari e candidati dell'amministrazione Trump. Sfidante di Biden nelle primarie democratiche per la Casa Bianca del 2020, è stata scelta dall’attuale presidente come propria vice, e si è distinta per il suo impegno sulla riforma della giustizia penale, l'assistenza sanitaria, l'immigrazione e il diritto di voto.

Harris, pur essendo donna e afroamericana, paga le divisioni nel Partito democratico tra l’anima progressista e quella moderata, che solo Biden è riuscito a bilanciare. I progressisti criticano Harris fin dalla sua attività di procuratrice, sostenendo che abbia appoggiato politiche repressive che hanno colpito soprattutto le minoranze. Inoltre, alcuni a sinistra ritengono che la vicepresidente non sia stata abbastanza incisiva nel sostenere politiche come l’assistenza sanitaria per tutti (che all’inizio aveva difeso), il New Deal verde e una riforma radicale della polizia. La giudicano, insomma, troppo centrista.

Sul tema caldissimo dell’immigrazione, mentre da destra si accusa Harris di essere troppo indulgente, alcuni critici di sinistra ritengono che non abbia fatto abbastanza per proteggere i diritti degli stranieri e biasimano il suo sostegno programmi che includono la detenzione e la deportazione di immigrati privi di documenti.

Alcuni attivisti ambientali e politici di sinistra ritengono anche che la numero due di Biden non abbia spinto abbastanza per un'azione contro il cambiamento climatico, nonostante il suo sostegno al Green New Deal. In sostanza, una parte dei democratici pensa che Harris non abbia usato efficacemente la sua posizione di vicepresidente per promuovere un'agenda progressista all'interno dell'Amministrazione.

Speculari le critiche che sono venute da destra e dal Partito repubblicano. Secondo l’opposizione, Harris incarna l’estrema sinistra e non è in linea con i valori americani tradizionali, a motivo, soprattutto, del suo sostegno al Green New Deal, all’assistenza sanitaria gratuita per tutti e all'aumento delle tasse sui redditi più alti.

I repubblicani hanno spesso attaccato Harris per il suo ruolo nella gestione della situazione al confine tra Stati Uniti e Messico, affermando che le politiche dell'amministrazione hanno portato a un aumento dell'immigrazione illegale e che la vicepresidente non ha fatto abbastanza per controllare efficacemente il confine.

Un altro punto controverso da destra, ma che può essere considerato un successo per Harris, concerne i diritti di voto, in particolare la sua opposizione alle leggi sull'identificazione degli elettori (che limitano l’accesso ai seggi) e il suo sostegno all'espansione del voto per corrispondenza.

Né democratici né repubblicani possono comunque negare che Harris abbia ottenuto buoni risultati nella promozione degli sforzi dell'amministrazione Biden per combattere la pandemia, soprattutto sul fronte della distribuzione capillare dei vaccini, che ha contribuito a ridurre la diffusione del virus e a facilitare la ripartenza dell'economia.

Inoltre, la vicepresidente ha sostenuto con forza l'approvazione dell'American Rescue Plan Act del 2021, una di legge di stimolo economico da 1.900 miliardi di dollari, volta ad accelerare la ripresa degli Stati Uniti dagli effetti economici e sanitari del Covid-19. Il piano prevedeva pagamenti diretti ai cittadini, estensione dei sussidi di disoccupazione e aiuti ai governi statali e locali.

Harris ha svolto anche un ruolo di sostegno alla legge bipartisan sulle infrastrutture del 2021 che stanzia 1.200 miliardi di dollari per modernizzare o realizzare strade, ponti, trasporti pubblici e Internet a banda larga, creando posti di lavoro e stimolando la crescita complessiva.

Se sarà Harris a raccogliere il testimone da Biden per sfidare Trump in una mini-campagna elettorale di meno di quattro mesi, dovrà trovare la chiave per mettersi in sintonia con un Paese diviso e arrabbiato che, forse, in una donna determinata ma non compromessa con la retorica del nemico potrebbe trovare una via di pacificazione. Anche se i quattro anni da vicepresidente non hanno evidenziato la sua capacità di conquistare le simpatie profonde degli elettori.