Reportage dal Baltico. Da Kaliningrad i missili nucleari di Putin sfidano la Nato
Più che udirne il botto ipersonico, i caccia russi si immaginano, si indovinano. Un barbaglio fuggevole sull’orizzonte, poi svaniscono nel tramonto baltico. Da Hel, punta estrema della penisola, una sottilissima striscia di sabbia che si stende come un pungiglione davanti a Gdynia e a Danzica, Kaliningrad appare come una tetra Shangri-La a una manciata di chilometri dalle coste polacche.
«Da trent’anni non abbiamo mai cessato di tenerli d’occhio», dice Pawel, puntando il dito in direzione della base militare che veglia interrotta sull’incubo permanente dei polacchi: la paura del Koshcheij, il drago-serpente delle fiabe sarmatiche, cupa e invincibile personificazione del Male che Polonia, Estonia, Lettonia e Lituania da sempre condividono e che da qualche mese si va irrobustendo di fronte al rischio che proprio da lì, da quella exclave russa nel Mar Baltico divampi prima o poi la fiammata della guerra fra l’Occidente e l’insensata e personale reconquista del perduto impero scatenata da Vladimir Putin.
Già la sventatezza lituana nelle scorse settimane stava per accendere un falò, quando in ossequio alle sanzioni nei confronti di Mosca Vilnius aveva ipotizzato il divieto di transito per gran parte delle merci che giungono a Kaliningrad grazie al Suwalki Gap, un corridoio di cento chilometri che lambisce Polonia, Bielorussia e Lituania: come dire, il punto più fragile e vulnerabile dell’intero schieramento Nato. Il che ha costretto l’intelligence un poco disattenta dell’Alleanza Atlantica a riconoscere che quel corridoio è un’arma a doppio taglio, visto che anche la Russia potrebbe chiuderlo, tagliando fuori così le tre Repubbliche baltiche dai collegamenti terrestri con il blocco atlantico. Da qui la precipitosa marcia indietro, considerata la rappresaglia militare immediatamente minacciata da Mosca («Spero in un dialogo che porti a meccanismi risolutivi», concede il portavoce del Cremlino Dmitrij Peskov).
Ma torniamo a Kaliningrad. La Könisberg di Immanuel Kant e di Hannah Arendt, l’antica Pomerania del Regno di Prussia. Non c’è più nulla di quel passato, dei baroni baltici, del Pickelhaube (l’elmo chiodato di Bismarck), di quel lembo di Pomerania che due guerre mondiali hanno annientato e un cinquantennio di occupazione sovietica ha sfigurato requisendone l’identità. Qui Mosca ha schierato la flotta baltica, da qui partono i caccia che pungolano le difese Nato per testarne la capacità e i tempi di reazione, e sempre qui Putin ha schierato i missili balistici Iskander con capacità nucleare, preannunciando che entro fine anno anche Kaliningrad potrebbe disporre dell’invincibile (e per ora inintercettabile) supermissile balistico intercontinentale Sarmat.
Operoso e instancabile opificio della paura, la cupa ombra di Kaliningrad è dilagata fin dal secondo dopoguerra in tutta l’area meridionale baltica: la russificazione forzata delle tre repubbliche, la colonizzazione-deportazione imposta da Stalin trapiantando in Lituania, in Lettonia e Estonia centinaia di migliaia di contadini prelevati da ogni angolo dell’immenso territorio dell’Unione Sovietica hanno lasciato un segno difficile da cancellare. Al punto che – con beffarda simmetria rispetto alla missione denazificatrice con cui Putin veicola e giustifica l’invasione dell’Ucraina – dopo essersi liberati del giogo sovietico i fragili avamposti baltici conquistati alla causa atlantica hanno messo in soffitta le stragi e la pulizia etnica nazista attribuendo alla sola Russia la causa di ogni male.
Come si tocca con mano a Vilnius, quando visitiamo il Genocido Auku Muziejus, il Museo delle vittime del genocidio, non a caso allestito nello stesso edificio che ospitò per decenni prima l’Nkvd, poi il Kgb. Ci si inoltra con palpabile orrore nelle celle dove gli aguzzini sovietici torturavano le proprie vittime, si compulsa sgomenti la perfetta macchina della repressione con cui l’apparato schedava, imprigionava, torturava e uccideva gli oppositori politici. Ma l’impronta dell’orso russo è di tale patologica invadenza che della tragica testimonianza dell’Olocausto lasciata tra il 1942 e il 1944 dalla Gestapo che imprigionò ed eliminò 200mila ebrei (la quasi totalità della popolazione ebraica della Lituania), resta solo un’esigua testimonianza. Lo spettro della persecuzione sovietica giganteggia su quello dell’Olocausto: il termine «genocidio» per i lituani, come per i lettoni, gli estoni, gli stessi finlandesi, per non dire dei polacchi, è associato per automatismo non tanto ai lager tedeschi quanto alla spietata decapitazione sistematica delle loro classi dirigenti e alle purghe perpetrate dalla Russia di Stalin. E quando nel gennaio del 1991 i carri armati sovietici T-72 aprirono il fuoco sulla folla che chiedeva l’indipendenza, i lituani urlavano ai russi: Fasjisty! Perché per loro i veri fascisti sono sempre stati i sovietici. L’invasione russa dell’Ucraina ha accentuato tutte le paure che le repubbliche baltiche avevano accantonato. Ora tutti guardano di nuovo a Kaliningrad. All’inavvicinabile città-arsenale della marina di Mosca a mezzadria con la mafia russa che ne ha fatto una no-man’sland senza legge come Vladivostok, un non-luogo da cui può scaturire l’irresponsabile scintilla che riaccende la guerra mondiale. Qualcuno, mi assicurano, continua a deporre rose rosse sulla tomba di Kant. Sull’epitaffio si legge: «Il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me». Nel 1795 aveva pubblicato l’inapplicato Progetto per la pace perpetua. Una manciata di chilometri più a ovest gli occhi cerulei di Pawel continuano a scrutare il cielo.