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Afghanistan. Kabul che verrà

Vittorio E. Parsi martedì 12 luglio 2011
Comprehensive approach e anaconda strategy. Sta in queste due espressioni il segreto della transizione, cioè del progressivo passaggio alle autorità afghane della responsabilità complessiva nel mantenimento della sicurezza interna. Un approccio complessivo, quello deciso da Isaf (International Security and Assistance Force), ai cui vertici siedono il generale americano David Petraeus (in  procinto di passare alla direzione della Cia) e l’ambasciatore britannico Gus. Sicurezza, ma anche sviluppo e governance, nella consapevolezza che senza decisi progressi in questi due ultimi settori ogni passo avanti nel primo campo può comunque essere reversibile. La "strategia dell’anaconda" prevede il progressivo soffocamento dell’insorgenza talebana, privandola degli elementi che ne forniscono il necessario nutrimento; la fornitura di armi e il reclutamento di miliziani, innanzitutto, ma anche il sostegno economico (spesso estorto con le minacce nei territori ancora controllati) e quello politico, derivante dalla capacità di "fare giustizia" in maniera tanto brutale quanto rapida nei tanti contenziosi che possono nascere nella società, dal campo del diritto privato a quello del diritto di famiglia.Isaf però si occupa direttamente solo della sicurezza, lasciando alle autorità afghane di decidere come e quando implementare le componenti civili della strategia. Certo i Prt (Provincial Reconstuction Team) collaborano in prima persona alla gestione e alla canalizzazione degli aiuti internazionali. Quello di Herat (nel settore Ovest del Paese, sotto la responsabilità italiana) ha scelto di svolgere un lavoro di regia, coordinando le ong che collaborano con Isaf e garantendo comunque un tavolo di reciproca informazione e consultazione a tutte quelle che hanno invece preferito mantenere una totale autonomia rispetto alla Nato. Decidendo poi di impiegare sempre e soltanto aziende locali e manodopera afghana per la realizzazione delle opere finanziate dalla comunità internazionale, questo Prt sta effettivamente contribuendo allo sviluppo dell’imprenditoria locale e offrendo prospettive di occupazione a migliaia di persone. Si tratta di un modo importante di dare effettiva attuazione a un approccio che fa della sicurezza solo uno degli elementi di soluzione del puzzle afghano. Il quadro complessivo della sicurezza nel Paese è intanto migliorato sensibilmente rispetto all’anno passato, con una sostanziale riduzione delle aree tenute sotto controllo dagli insorgenti e con una maggiore capacità operativa delle forze di sicurezza (esercito e polizia). Le perdite civili sono sempre più contenute e per l’85% causate dagli attentati degli insorgenti. Da tempo, la quasi totalità delle operazioni è svolta in maniera congiunta tra alleati e afghani e sempre più spesso agli afghani è delegata la pianificazione e la leadership delle missioni. Proprio per consentire all’Ana (Afghanistan National Army) e all’Anp (Afghanistan National Police) di prendere in mano la gestione della sicurezza dopo il 2014 – quando la transizione sarò completata e non resteranno più truppe combattenti Isaf sul suolo afghano – è previsto che anche dopo quella data restino consiglieri militari e istruttori della Nato. L’impegno è quello di non abbandonare il Paese, ma di continuare a fornirgli l’assistenza necessaria: non solo militare, evidentemente, ma anche economica. Difficile altrimenti immaginare come potrebbe il quinto Paese più povero del mondo a permettersi quell’apparato di sicurezza di 350.000 uomini giudicato appena sufficiente a mantenere l’ordine.Ma dal punto di vista politico, quale Afghanistan potremmo immaginarci dopo il 2014? «Di sicuro non la Svizzera – come ammettono schiettamente figure di altissimo livello dentro Isaf dietro garanzia dell’anonimato –, ma un Paese che non ritorni al disastro economico, civile e sociale dei tempi dei taleban o della guerra civile». Del resto non uno dei vicini regionali, alcuni dei quali (Pakistan, Iran) molti afghani ritengono corresponsabili della situazione in cui versa il loro Paese, possiede le caratteristiche di una perfetta democrazia o di un illuminato modello sociale. Non sorprende, così, che i settori più avanzati della società afghana nutrano timori per il "dopo-transizione". Così come perplessità esistono sulla capacità del governo centrale di Kabul di trasferire fondi e sostenere progetti anche lontano dalla capitale, di lottare con efficacia contro la corruzione e di articolare un efficace sistema giudiziario in un Paese in cui un giudice o un procuratore guadagnano la metà di un poliziotto o di un soldato. Tutte incognite, e scommesse, che gravano pesantemente sul futuro di un Paese da quasi 40 anni teatro ininterrotto di conflitti interni e internazionali.