1. TUTTO COME PRIMAIl dolore e la rabbia per la strage che ha colpito il contingente italiano costringe a discutere della presenza di truppe occidentali in Afghanistan. Ma non soltanto a Roma affiorano perplessità e dibatti nelle forze politiche. Il Canada va a ridurre il proprio impegno, così farà l’Olanda e la Gran Bretagna, che piange già più di duecento vittime sul fronte di Kabul, deve fare i conti con un’opinione pubblica sempre meno disposta ad accogliere bare dei suoi soldati, mentre pace e democrazia nel Paese asiatico non fanno grandi passi avanti. Fonti della Nato a Bruxelles fanno sapere che il periodo in cui continuare con l’attuale assetto va dai 18 ai 24 mesi. Successivamente, se non si vedranno risultati tangibili, l’idea del disimpegno comincerà a farsi strada. Anche se il ritiro sarebbe lento e cadenzato. In questi due anni che situazione ci aspetta? «Un lento peggioramento, probabilmente», dice Elisa Giunchi, docente all’Università Statale di Milano e ricercatrice dell’Ispi. «I taleban non hanno la forza di rovesciare Karzai, le forze internazionali terranno Kabul e alcune zone, nelle altre aumenterà gradualmente la penetrazione della guerriglia». Che cosa serve oggi, quindi? «Maggiore coordinamento tra le forze presenti – osserva John Hemmings del think tank inglese Rusi –. Inutile aumentare le truppe, se non vengono impiegate bene. E, soprattutto, dobbiamo proteggere la popolazione, impedire che si senta sotto occupazione e magari minacciata dagli stessi bombardamenti Nato». Cosa che è accaduta non di rado recentemente e che ha alienato la simpatia della gente alla missione Isaf. Un logoramento progressivo sembra dunque la prospettiva nel caso non si cambi nulla nel dispositivo militare e nella strategia complessiva di approccio alla missione. Vi saranno altre perdite e pochi progressi sul fronte della sicurezza e dei diritti. Difficile, insomma, proseguire a lungo come si è fatto sinora.
2. RITIRO IN TEMPI BREVIIn Iraq si parlava di Exit Strategy. Per l’Afghanistan si è coniata l’espressione Transition Strategy. Ovvero, una strada per il disimpegno progressivo da un Paese in cui le forze internazionali non stanno ottenendo i risultati sperati. Andarsene, allora? Ma con quali conseguenze? Lo scenario di un abbandono del territorio trova quasi unanimi gli analisti. «Tracollo totale dell’economia nazionale, che oggi è puntellata dalle democrazie occidentali. Disfatta dell’esercito regolare, incapace di reggere l’urto con le milizie talebane, e un ritorno alla situazione del ’92 quando, dopo il ritiro sovietico, il regime di Najibullah non riuscì a resistere che 4 anni. Oggi la mia previsione è di un periodo molto più breve». Andrea Nativi, direttore della
Rivista italiana di difesa e apprezzato analista, non ha incertezze. E evoca scenari ancora più inquietanti. Concorda Elisa Giunchi. «Lo spettro del tutti contro tutti, della conflittualità tra etnie non è così remota, anzi. Da solo, Karzai non avrebbe la forza di controllare nemmeno Kabul. Non dimentichiamo poi che nella spirale di instabilità verrebbe trascinato anche il vicino Pakistan, con tutto quello che ciò comporta». Un enorme bacino di reclutamento del terrorismo, nell’ipotesi migliore. «Nella peggiore – chiosa Nativi –, un governo fondamentalista a Islamabad non esiterebbe ad riprendere il confronto con l’India. E sappiano che negli arsenali pachistani si trovano armi nucleari…». Se anche il contagio non si estendesse, l’eventualità che le montagne afghane tornino il santuario di al-Qaeda, con libertà di manovra per i suoi capi, non sarebbe così remota. Ma, soprattutto, la morte in culla della neonata democrazia di Kabul verrebbe pagata dalla popolazione, di nuovo vittima della violenza endemica, in un contesto sociale ed economico ostile a ogni idea e possibilità di sviluppo.
3. CAMBIO DI STRATEGIALasciare Kabul ad al-Qaeda rappresenta uno scenario fosco. Ma anche morire per la capitale afghana non risulta digeribile dopo 8 anni di presenza occidentale nel Paese. Una soluzione potrebbe essere quella di cambiare marcia, in tutti i sensi. Più soldati operativi, chiede il generale McChrystal a Obama, che può concederli a differenza di Bush, ma soltanto perché l’America si è sfilata dall’Iraq e non per migliore volontà. Anche la Nato chiede ai suoi membri di incrementare gli organici per mettere nell’angolo i taleban. Non è però l’unica via. «È necessario ricostruire, dare opportunità alla popolazione. distribuire aiuti – afferma Nativi –. E anche trattare con i capi tribali, per costruire un consenso più largo». Non è più tabù accennare a tavoli di pace allargati, anche Fareed Zakaria, direttore di
Newsweek e commentatore assai ascoltato alla Casa Bianca, sostiene un approccio pragmatico che includa la leva economica per comprare l’appoggio dei gruppi etnici in cui è diviso l’Afghanistan. Obiettivo minimo: evitare che i terroristi riprendano possesso delle loro basi e impiantino nuovi campi in cui addestrare kamikaze pronti a fare stragi nel mondo. «Per l’Italia vedo un ruolo potenziato proprio in questa linea umanitaria – propone Giunchi –, meno soldati e più personale impegnato nella cooperazione». Strada in salita, però. Perché a fronte di una diminuzione dei militari di alcuni Paesi, altre nazioni dovrebbero farsi carico dell’onere. Conquistare menti e cuori della popolazione, comunque, resta l’obiettivo numero uno nel caso si voglia cambiare davvero strategia con un impegno rinnovato. Senza farsi illusioni, tuttavia. Ci vorranno molti anni prima di vedere un Afghanistan davvero incamminato sulla strada della crescita e della convivenza pacifica.