Kabul. L'ospedale dove i feriti sono diventati fisioterapisti e curano gli amputati
Zabhi Erfani al lavoro con un paziente amputato
Un solo istante e la sua vita sembrò fermarsi per sempre. Una passeggiata per le strade di Kabul per Mohammad Zabhi Erfani si era trasformata in un instante in una tragedia. Aveva solo undici anni, quando, camminando con il fratello attraverso i vicoli del quartiere Darlaman della capitale afghana, il suo piccolo piede si posò su una mina. L’esplosione. Poi il buio, il silenzio.
L’ordigno fantasma, collocato da alcuni miliziani senza scrupoli, gli aveva reciso di netto una gamba e ferito gravemente l’altra. Per qualche ora il suo corpicino straziato rimase sull’asfalto privo di sensi, fino a quando un veicolo militare, attratto dalle grida di aiuto lanciate dal fratello, non si fermò prestandogli soccorso e lo trasportò d’urgenza al Karte Seh Hospital, a ovest di Kabul, dove opera il Comitato internazionale della Croce Rossa (Icrc).
«Era il 1998 e la mia città era diventata teatro di scontri fra le diverse fazioni – racconta adesso Zabhi Erfani – e nessun luogo era sicuro. Strade, piazze, case erano diventate delle polveriere. Quel giorno, dopo la deflagrazione, entrai in coma e mi risvegliai dopo una settimana. Realizzai subito che la mia gamba non c’era più e questo mi fece cadere in una profonda depressione dalla quale, secondo quanto riferirono i medici ai miei genitori, sarei potuto uscire solo con una terapia farmacologica. E invece – prosegue – visitando il centro dell’Icrc di Kabul, specializzato nella realizzazione di protesi, conobbi il 'dottore italiano' Alberto Cairo, responsabile del programma di riabilitazione fisica. Mai avrei pensato che quell’incontro avrebbe potuto cambiare il mio stato, restituendomi la speranza e la voglia di vivere; mi fece fare un giro per le sale e mi mostrò dottori, fisioterapisti, infermieri e pazienti le cui condizioni erano persino peggiori della mia, ma tutti si erano ripresi. Adesso gli sono veramente grato per tutto quello che ha fatto per me».
La ong gli ricostruì l’arto perso, gli offrì la possibilità di studiare e oggi «Zabhi», così lo chiamano al centro riabilitativo di Kabul dove lavora, fa il fisioterapista e aiuta gli altri mutilati a muovere i «primi» passi con un arto nuovo. «Zabhi non è l’unico disabile del nostro staff», spiega da Kabul Alberto Cairo, laureato in giurisprudenza, fisioterapista da 30 anni, e candidato nel 2010 al premio Nobel per la pace. «Anzi, per regola i nostri centri impiegano soprattutto persone che per la loro condizione sono escluse dal mercato del lavoro. La quasi totalità dei 750 nostri dipendenti che prestano servizio nei sette centri ortopedici in Afghanistan ha subito mutilazioni, potremmo definirla una “discriminazione positiva”. Quando qualcuno arriva in condizioni disperate, ho imparato a non pensare “poveretto”, ma a calcolare rapidamente i giorni che ci vorranno per rimetterlo in piedi. Bisogna considerare – continua Alberto Cairo – che curiamo ogni anno 12mila persone, di queste 1.500 sono vittime del conflitto, non possiamo cedere allo sconforto. Dobbiamo cercare di guardare il bicchiere mezzo pieno». L’operato del Comitato internazionale della Croce Rossa è ben visto dalla popolazione, e dalle autorità governative e da quelle talebane.
«Ci prendiamo cura di tutti, in ospedale il vecchio comunista siede accanto a un mujaheddin e questi accanto a un taleban. La disabilità è qualcosa che riappacifica, pone fine alle differenze politiche e ideologiche: nella condivisione del dolore – conclude Alberto Cairo – tutti diventano uguali». Nel 2018, secondo le stime dell’Icbl – la Campagna internazionale per il bando delle mine antiuomo – tali ordigni hanno causato la morte di 797 persone e il ferimento di altre 1.503. Cifre che conferiscono alla Repubblica centroasiatica il triste primato dei Paesi al mondo più interessati dal fenomeno.