Il trionfo del premier della Brexit. E Bojo infine conquistò la vittoria disgregatrice
«Ora faremo la Brexit in tempo entro il 31 gennaio: senza se, senza ma e senza forse». Più che una valanga, un verdetto storico. L’incontestabile affermazione elettorale del partito guidato da Boris Johnson ha il pregio di aver chiarito definitivamente quale fosse l’orientamento maggioritario dell’opinione pubblica britannica attorno al complicato processo di congedo dall’Unione Europea, mettendo altresì in luce sia la profonda spaccatura del Paese (Londra, l’Irlanda del Nord e la Scozia erano e rimangono contro il distacco dalla Ue) sia le spinte disgregatrici che quel vero e proprio vaso di Pandora del referendum ha provocato.
Il temerario e scapigliato Boris Johnson, capace di sorprendenti abracadabra tattici come di leggendarie cadute di stile (per trovare un leader più politicamente scorretto di lui dobbiamo ricorrere al solo Donald Trump) vince con un margine che solo Margaret Thatcher negli anni Ottanta aveva raggiunto, consegnando ai tories una maggioranza parlamentare che consentirà di disegnare il nuovo volto della Gran Bretagna grazie a un divorzio netto, una Brexit senza incertezze e soprattutto un fossato che si apre – ora davvero – fra il continente e quel Regno che mai fino in fondo si è sentito europeo, limitandosi – nonostante l’innegabile contributo politico e l’importanza di certe scelte – a disporre di scorciatoie e di garanzie, di opt out e di eccezioni, soprattutto in tema fiscale e finanziario.
Ma ciò che in queste ore si festeggia al numero di 10 di Downing Street (e – con maggior discrezione ma immenso sollievo – delle stanze felpate della Banca d’Inghilterra con la sterlina in imperioso rialzo e, perché nascondercelo?, forse anche a Buckingham Palace) era ciò che da anni Boris Johnson perseguiva, con una cocciutaggine degna del suo modello ispiratore – il 'marrano' Benjamin Disraeli – e la certezza quasi millenaristica della propria predestinazione, seconda soltanto a Winston Churchill, per il quale nutre da sempre qualcosa di simile alla venerazione.
Ad agevolare Johnson nella vittoriosa cavalcata sulla groppa della Brexit, un estenuante rodeo mediatico fra rivolte, dimissioni, imboscate parlamentari e manovre da autentico filibustiere sovente costellato di slogan e di promesse farlocche, è stato Nigel Farage, l’«utile idiota» creatore e alfiere del partito del leave che le urne hanno puntualmente spazzato via con uno zero assoluto. Ma il grande sconfitto di questa tornata elettorale è stato il partito laburista di Jeremy Corbyn, il cui tonfo verticale è così clamoroso da dover risalire agli anni Trenta del Novecento per ritrovare una Waterloo di consensi altrettanto eclatante. Corbyn, figura ambigua e ondivaga fin dall’epoca del referendum, ha pagato i tanti errori commessi in tre anni e mezzo di opposizione, non ultimo il saccente massimalismo d’antan degli ultimi tempi che agli inglesi, compresi i molti sostenitori del remain, ma anche il suo stesso bacino elettorale nelle Midlands, nel Galles e soprattutto nelle roccaforti rosse del Nord, non è affatto piaciuto, relegandolo ora al ruolo non più di antagonista ma di più modesto comprimario, non senza l’improntitudine di mantenere la leadership del partito a dispetto della rotta elettorale.
Ma, come si diceva, la stessa spinta disgregatrice che allontana le Isole Britanniche dall’Europa Boris Johnson se la ritrova anche dentro i confini nazionali. Il plebiscito anti-Brexit ottenuto dai nazionalisti scozzesi di Nicola Sturgeon parla chiaro: lo spettro di un secondo referendum per l’indipendenza della Scozia e la secessione dal Regno ritorna potente e minaccioso. Così come è un fatto l’aggrovigliarsi del nodo irlandese...
Persuaso che il futuro della Gran Bretagna stia in mare aperto, che quel «Britannia, rule the waves» (Britannia, domina le onde) sia ancora lo stigma della potenza imperiale che fu, BoJo può finalmente disporre dei voti necessari per guidare il Paese verso il proprio futuro. Sul quale già fioccano preoccupati interrogativi: come sarà il rapporto con la Cina? E quale forma prenderà la sintonia e l’alleanza con l’America di Donald Trump, fervido avversario dell’Unione Europea e grande sostenitore del divorzio inglese? E più ancora: quale saranno i reali rapporti con la Ue? Come si declineranno i mille problemi tecnici, doganali, finanziari e fianco politici che verranno immediatamente al pettine? Nessuno per ora lo sa. E sicuramente nemmeno Boris Johnson. Ma a questo oramai siamo a abituati. Dio protegga gli inglesi…