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Il fenomeno . Jihadisti «made in Ue»: gli Stati corrono ai ripari

Lucia Capuzzi sabato 26 aprile 2014
I servizi segreti europei sono in al­lerta da tempo. Ma solo nell’ulti­ma settimana, Gran Bretagna e Francia hanno lanciato due iniziative ad hoc. Segno che non si tratta più di casi isolati. I jihadisti che partono per la Siria con in tasca il passaporto Ue so­no ormai un fenomeno diffuso: dal rapper tedesco Denis Cupert, in arte Deso Dogg, al militare francese, alle 10 mogli britanniche che avrebbero se­guito i mariti, all’italiano morto nel conflitto. E allarmante. Le stime parlano di almeno 2mila. La metà proviene da Londra e Parigi, con 500 aspiranti islamisti a testa, seguite da Germania – circa 300 – Belgio – tra i 220 e i 250 – e Olanda, 100 e altrettanti dalla Danimarca. Ad “accoglierli” è so­prattutto lo Stato islamico in Iraq e nel Levante (Isis), in cui la gran parte dei combattenti è straniera. Questo spie­ga l’isolamento della formazione nel conflitto siriano, espulsa perfino dal­la galassia qaedista. Anche i gruppi fondamentalisti più ortodossi come Ahrar al-Sham e al-Nusra incorpora­no occidentali nelle loro fila, soprat­tutto europei. Per canadesi e statunitensi – comun­que presenti – è più complessa la lo­gistica del viaggio, per via della di­stanza, e meno diffusa l’esistenza di gruppi autoctoni radicali. Sono questi ultimi i “ponti” per arruolarsi tra i jiha­disti. La trafila, una volta ottenuto il “contatto”, è relativamente semplice: si acquista un biglietto per la Tuchia, da lì si raggiunge il fronte. E comincia il jihad. Già, perché chi va a combat­tere in Siria, non lo fa tanto per abbat­tere il regime di Bashar al-Assad, quanto per costruire uno Stato integralista musulmano nel cuore del Medio O­riente. Un’occasione unica per i radi­cali: gli “esperimenti” finora realizza­ti – dall’Afghanistan alla Somalia – ri­guardavano la periferia del mondo i­slamico. La Siria, al contrario, anche dal punto di vista simbolico, ne è il cuore. Da qui la mobilitazione mas­siccia e anche l’assenza di un feno­meno analogo per quanto riguarda le formazioni laiche che si oppongono al dittatore. A parte gli esuli siriani o i loro discenti, nessun europeo si uni­sce all’Esercito libero. È proprio la fascinazione jihadista a preoccupare. Il pericolo – affermano gli esperti – si chiama “blowback”, cioè “contraccolpo”. Che cosa faranno gli ex guerriglieri una volta rientrati a ca­sa? Certo, non tutti proseguiranno l’at­tività terroristica nel Vecchio Conti­nente. Secondo le stime dell’analista Thomas Hegghammer, solo un vete­rano estremista su nove ha collabora­to ad attentati in Occidente negli ulti­mi trent’anni. L’esempio afghano, però, fa presupporre che almeno una minoranza “importerà” in patria le tecniche apprese al fronte. La parola d’ordine è, dunque, prevenire. Argi­nando le partenze sia con campagne di sensibilizzazione sia incrementan­do i controlli. L’Inghilterra ha scelto la prima strategia per decapitare le “fu­cine jihadiste” concentrate a Londra, Birmingham e Manchester. Le autorità hanno lanciato una campagna rivol­ta alle donne musulmane affinché dis­suadano i figli e i mariti dall’arruolar­si. Da gennaio, sono già 40 le persone arrestate per aver aderito a gruppi ter­roristi attivi in Siria, contro i 25 del­l’anno scorso. Parigi, dal canto suo, ha approvato un piano che abbina la «dis­suasione alla prevenzione». A tal fine, come annunciato dal ministro del-­l’Interno Bernard Cazeneuve, verrà ri­pristinata l’autorizzazione per i minori che intendano lasciare la Francia. I ge­nitori che notino comportamenti so­spetti nei figli, inoltre, potranno avere assistenza. Al contempo, è stata raffor­zata la sorveglianza di alcuni gruppi – siti, moschee, comunità – “sensibili”. Il governo ha deciso di alzare la guardia. Il timore è che la scoperta, qualche set­timana fa, di un uomo a Cannes in­tento ad organizzare un attacco sia so­lo la punta dell’iceberg.