L'analisi. Africa, il «jihad liquido» annega il Sahel
Miliziani degli shabaab somali ad Afgoye, a ovest della capitale Mogadiscio
Un jihad «liquido», sparso, in cui le grandi iconografie e ideologie mediorientali sono quasi secondarie rispetto a rivendicazioni locali o a semplici obiettivi di arricchimento o di occupazione di un territorio. L’estremismo islamico gioca una partita nuova in Africa, una partita che ha un campo d’azione qui sterminato e che, partendo dalle coste atlantiche della Mauritania, si distende in un arco che arriva ad est fino al Corno d’Africa, per poi dipanarsi verso sud, passando attraverso la Repubblica democratica del Congo fino in Mozambico, al confine con la Tanzania.
Può contare su fragilità istituzionali, confini porosi, una corruzione estesa, una maggiore disattenzione da parte del mondo. Che di quell’estremismo spesso vede solo le conseguenze, in termini di sfollati, migranti, impoverimento generale di un continente che già prima faticava nella corsa verso lo sviluppo. Non c’è più un centro, ma tanti pezzi, tante formazioni armate che, spesso solo per convenienza, si affiliano a gruppi internazionali più noti, ora lo Stato islamico (Daesh), ora al-Qaeda o quel che ne rimane. Fanno proselitismo con il terrore, sequestrano, reclutano ragazzi approfittando dei vuoti di potere e delle vaste povertà di un continente che per età media è il più giovane della terra ma che a quei giovani poco o niente offre.
Sahel
L’ultimo attacco ai villaggi, in Niger, è del 21 marzo: 137 civili uccisi nella regione di Tahoua. Stavano andando a raccogliere acqua: uomini armati hanno sparato a tutto ciò che si muoveva. Niger, ma anche Mali e Burkina Faso, in un mondo ora «distratto» dal Covid-19, sono al centro di una catastrofe umanitaria. Nel solo 2020 sono stati 5mila i morti, 1,4 milioni gli sfollati interni, 3,7 milioni le persone piombate nell’insicurezza alimentare in questo triangolo martoriato. Molte delle dinamiche conflittuali partono da un bene sempre più prezioso e raro: la terra. Milizie che si muovono su base etnica o per aggiudicarsi il controllo della regione in vista di affari sporchi in un territorio devastato da cambiamenti climatici e lotta per le risorse. Vittime di attacchi di matrice terroristica, centinaia di migliaia di famiglie stanno abbandonando le loro case e attività in regioni che gli Stati non controllano. In Mali è stato di recente ucciso dalle forze francesi Bah Ag Moussa, il capo militare del Gsim, il Gruppo di sostegno all’islam e ai musulmani, di fatto l’ala militare di al-Qaeda nell’Africa del nord. Ma gli attacchi ai villaggi e alle basi militari continuano. In Burkina Faso se Ansour al Islam sembra ora in difficoltà, altri gruppi, anche provenienti dal Mali, continuano a provocare tensioni.
Nigeria-Camerun-Ciad
Quattro mesi fa la provincia dello Stato islamico nell’Africa occidentale (Iswap), una fazione secessionista dell’organizzazione terroristica nigeriana Boko Haram, ha nominato Aliyu Chakkar come il suo nuovo «governatore della regione del Lago Ciad». La regione comprende, oltre alla Nigeria, anche Camerun e Ciad e la nomina dà l’idea di come ormai la guerriglia sia ormai transfrontaliera. Non solo attacchi ai villaggi e ai militari: i terroristi – Boko Haram, Iswap, Ansaru – usano anche sequestri di massa come mezzo di autofinanziamento, lucrando sui riscatti. In Nigeria sono a forte rischio le scuole, i cui studenti sono presi spesso di mira. Nella regione del lago Ciad oltre 13 milioni di persone necessitano di aiuti e oltre 3 milioni sono gli sfollati. Secondo il Pentagono, Iswap può contare su 3.500-5mila uomini e ha ricevuto sostegno finanziario e tecnico dal Daesh, nonostante resti operativamente indipendente e focalizzato su obiettivi locali. Stando alle Nazioni Unite, mantiene un «legame logistico» con un altro gruppo, lo Stato islamico nel Grande Sahara, basato nel Sahel. Boko Haram, da parte sua, conta su almeno duemila miliziani: nonostante il picco di vittime provocato dai suoi attacchi sia calato dalle 4.500 del 2014 a meno di mille nel 2020, ha ancora la capacità di assaltare basi militari, sferrare attacchi in aree urbane, devastare villaggi e imporre estorsioni ai commercianti locali.
Congo
Vecchi «brand» trovano in questa era di jihad liquido nuova linfa. È il caso delle Forze democratiche alleate (Adf), nate nel ’95 per mano di miliziani congolesi ed esponenti salafiti ugandesi e che sfruttano i monti del Ruwenzori come base per incursioni nel Nord Kivu e nella regione dell’Ituri. Sono territori non molto lontani da quello in cui, lo scorso 22 febbraio, hanno trovato la morte in un brutale attacco l’ambasciatore italiano nella Repubblica democratica del Congo Luca Attanasio, il carabiniere Vittorio Iacovacci e il loro autista Mustapha Milambo. Tramortite negli scorsi anni dagli eserciti locali, le Adf sono tornate protagoniste di attacchi sul campo grazie alla loro affiliazione con l’Iscap, la provincia dello Stato islamico nell’Africa centrale, ennesima variabile di una delle aree più instabili nel mondo, quell’Est del Congo in cui operano oltre cento gruppi armati, attirati dalle materie prime. Nel 2020, solo tra luglio e aprile, l’Iscap ha rivendicato 25 attacchi, mentre nei 12 mesi precedenti erano stati 33. Oltre ad aumentare le operazioni, prosegue il reclutamento, con video di indottrinamento che il gruppo jihadista fa circolare tramite Whatsapp. Si sfrutta anche la pandemia: abbracciando il jihad, è l’invito in un video, si è anche immuni a qualsiasi contagio da coronavirus.
Somalia-Kenya
«Kamikaze a Mogadiscio» è uno di quei drammatici refrain che torna con frequenza regolare nei titoli dei notiziari. Gli shabaab somali («i giovani») martellano con i loro attacchi un Paese che vive nell’instabilità da oltre tre decenni. Gli obiettivi più ambiti sono gli hotel frequentati dagli occidentali e dai politici locali, che hanno una risonanza più ampia a livello internazionale, ma non solo. «Storico» a suo modo è rimasto l’assalto all’università keniana di Garissa, poco oltre il confine, con 148 vittime, per lo più studenti. Frequenti anche gli assalti alle basi militari keniane, per punire Nairobi e il suo impegno militare in Somalia. Il gruppo controlla gran parte della Somalia centro-meridionale e guadagna bene: nell’ottobre scorso un report dell’Hiraal Institute ha evidenziato che il gruppo riesce a estorcere 15 milioni di dollari al mese (oltre metà nella capitale), tanto quanto incassa il governo centrale, sia dai commercianti che dalla popolazione rurale, imponendosi con la violenza. Ci sono imposte sui capi di bestiame, sui raccolti e perfino sull’acqua dei pozzi. Denaro che serve poi a pagare i miliziani e comprare armi.
Mozambico
Nei giorni scorsi su Twitter il gruppo Ahlu Sunnah Wal Jamaah ha rivendicato di aver ucciso 55 stranieri e di aver preso il controllo della città di Palma, nella provincia settentrionale di Cabo Delgado. Fedeli al Daesh ma senza legami con l’omonima formazione somala, gli shabaab da quattro anni seminano terrore nella zona. A Palma migliaia di civili, fuggiti nella boscaglia, sono ancora alla ricerca di un rifugio sicuro. Condividono la sorte dei quasi 700mila sfollati (oltre ai 2mila morti) provocati in questi anni dai terroristi. Il reclutamento dei giovani estremisti è stato favorito dalla condizione di emarginazione economica di una regione in cui il governo statale ha rimosso intere comunità, favorendo concessioni a società alla ricerca di gas, petrolio e minerali preziosi. I predicatori estremisti hanno quindi fatto il resto, attraendo i giovani anche con la prospettiva dei soldi facili. Insieme alla francese Total (investimenti per 20 miliardi di dollari), forti interessi nell’area hanno anche l’Eni e l’americana ExxonMobil (progetti per 35 miliardi). Un governo opaco, risorse da sfruttare, l’instabilità provocata da un gruppo legatosi al peggio dell’estremismo globale, una popolazione locale disperata e in fuga. Gli ingredienti per il prossimo disastro africano sono già tutti lì.