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Reportage. Jenin, Pizzaballa abbraccia i cristiani. «La disperazione non è un’opzione»

Nello Scavo, inviato a Jenin mercoledì 11 settembre 2024

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Due settimane fa a Jenin, in Cisgiordania, c’erano l’illuminazione stradale, l’elettricità nelle case, scorreva acqua corrente e circolavano i soliti smargiassi con i kalashnikov in spalla. Al calar della sera, nella roccaforte della resistenza armata, le strade erano buie, ingombre di macerie, il vasto campo profughi illuminato solo da torce, i rubinetti a secco. E i soliti ragazzini induriti dall’odio e dalla polvere da sparo a pattugliare con i mitra a tracolla. Dieci giorni di battaglia hanno smosso altra terra nel “cimitero dei martiri” all’ingresso della città. Anche l’aiuola della rotonda stradale è stata adibita a camposanto. Il ministero della Sanità palestinese ha dichiarato che 21 palestinesi sono stati uccisi a seguito dell’assalto che ha causato anche ingenti danni alla città.

Martedì era arrivato a sorpresa il cardinale Pier Battista Pizzaballa. Un gesto senza preavviso e senza clamore, non il primo. «Sono qui per stare con voi e affermare che non siete soli», ha detto il Patriarca latino di Gerusalemme salutando la comunità dei fedeli nella parrocchia di Jenin. «Sebbene affrontiamo tempi difficili, la disperazione non è un’opzione». Arrivando in città il porporato ha osservato ancora una volta la portata della distruzione, che non ha risparmiato neanche le proprietà della Chiesa. «Questi edifici saranno ricostruiti – ha detto incoraggiando i fedeli –. Esorto la comunità cristiana di Jenin e delle aree circostanti a rimanere unita e resiliente».

Il cardinale era accompagnato dal vicario generale, William Shomali, e da Sami el-Yousef, amministratore delegato del Patriarcato. Pizzaballa ha parlato con padre Amer Jubran, il parroco, che ha ringraziato la delegazione giunta da Gerusalemme, illustrando gli ingenti danni alle proprietà della Chiesa e le difficoltà della comunità. A Jenin c’erano anche sacerdoti da Nablus, dove si temono altre giornate di scontri, diverse suore, oltre ai giovani dei gruppi scout. Muhammad Zakaria Zubeidi, figlio di Zakaria Zubeidi, da tempo in prigione in Israele con l’accusa di essere il capo delle Brigate dei Martiri di al-Aqsa a Jenin, è tra i 21 «vittoriosi» sepolti in fretta. I membri della coalizione di gruppi armati non parlano mai di sconfitte. «Hanno distrutto le case, hanno ucciso persone, molti bambini non potranno andare a scuola e anche la fognatura è stata fatta saltare, ma gli israeliani non vinceranno mai», dice uno dei pochi in vena di chiacchiere.

Il punto di vista della resistenza armata non concepisce l’idea del fallimento. «È semplice, ma non volete capirlo», spiega il ragazzo che con un cenno del capo riceve da un adulto a volto parzialmente coperto il consenso a farsi intervistare. «La guerra per noi è sempre una vittoria. Se riusciamo a respingere gli israeliani, abbiamo vinto. Se riusciamo a ucciderli, abbiamo vinto. Se li spaventiamo, abbiamo vinto». E quando vi uccidono? «Abbiamo vinto ancora, perché quella è la morte dei martiri e i martiri non sono perdenti, morire per la causa palestinese non è un fallimento». Per tutta la giornata i cieli della Cisgiordania sono stati attraversati dalle scie basse dei caccia israeliani che saettavano da una parte all’altra. Venti chilometri più a sud di Jenin un jet ha sparato alcuni missili contro un edificio a Tubas, uccidendo almeno cinque persone. L’esercito israeliano ha confermato l’attacco: «Come parte dell’attività antiterrorismo, un aereo dell’Iaf (Israeli Air Force, ndr) ha colpito una cellula terroristica armata».

Dall’interno dell’abitato la coalizione delle fazioni armate ha tentato di bloccare l’ingresso dei blindati e dei bulldozer israeliani, che attendono la notte prima di completare l’assedio.

Le forze israeliane stanno aumentando la pressione con incursioni prolungate a Tubas, Jenin e Tulkarem. Tutte e tre le città contano una forte presenza di fazioni armate, tra cui Hamas, Jihad islamica e gruppi sunniti venuti a patti gli sciiti Hezbollah libanesi filoiraniani. Più di 680 palestinesi sono stati uccisi in Cisgiordania dall’attacco di Hamas contro Israele il 7 ottobre 2023. Nello stesso periodo, circa 40 soldati e civili israeliani sono caduti in attacchi da parte di palestinesi o in scontri con i combattenti, secondo le autorità sanitarie israeliane. Ieri l’agenzia di Tel Aviv per la sicurezza interna ha confermato l’attacco contro un colono travolto e ucciso da un’auto a est di Ramallah, il capoluogo politico della Cisgiordania. E un soldato israeliano di 24 anni, Geri Giden Hanghal, è morto per le gravi ferite riportate quando è stato investito da un camion guidato da un palestinese, mentre si trovava di guardia nei pressi di una fermata dell’autobus, vicino all’insediamento di coloni di Givat Asaf, in Cisgiordania. Fonti della sicurezza israeliana hanno confermato di avere ucciso il trasportatore e spiegato che «dopo quanto accaduto, soldati e membri della polizia di frontiera si sono recati presso l’abitazione del terrorista ed hanno esaminato la casa per valutarne l’eventuale demolizione».

Lasciare Jenin quando si va spegnendo il giorno è pericoloso. Non solo per i colpi da una parte e dall’altra sparati a casaccio nel buio come per segnalare la reciproca presenza sul terreno. La strada, che era d’asfalto, nell’oscurità sembra il fondale distrutto e senza più vita lasciato dalla pesca a strascico. E la «ricostruzione» delle cose e delle relazioni, come l’ha evocata il cardinale Pizzaballa, sono le uniche parole udite in questi giorni contro il culto della distruzione.