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Israele. Il popolo anti-Netanyahu conquista Gerusalemme: in 100mila per le dimissioni

Lucia Capuzzi, inviata a Gerusalemme domenica 31 marzo 2024

L'arrivo dei manifestanti nel centro di Gerusalemme

Rannicchiate in uno dei pochi punti d’ombra, Ilana e Tally tessono una cintura ciascuna. Bianca Ilana, rossa Tally. Colori-simbolo di speranza e rabbia – precisano –, i due sentimenti che muovono

le mani agili e instancabili delle “Penelopi”. «Già, qualcuno ci chiama così. Come l’eroina dell’Odissea aspettiamo e tessiamo. Speriamo di non dovere attendere tanto come lei, siamo qui da 7 novembre

». A un mese esatto dal massacro perpetrato da Hamas nei kibbutz del sud di Israele, c’è stato il primo raduno di fronte alla Knesset di Gerusalemme per chiedere la fine della guerra e un accordo per riportare a casa gli ostaggi. Quel giorno, qualcuna si è messa a fare la maglia per occupare il tempo.



Altre l’hanno seguita e, pian piano, è nato il gruppo di oltre cento tessitrici. «Tessitrici in molti sensi. Di fili di lana ma anche di relazioni – dice Ilana –. Tra una sferruzzata e l’altra parliamo molto e, così, ci è venuta l’idea di confezionare un nastro che si dipani per gli 80 chilometri tre il Parlamento e Gaza. Lo componiamo a staffetta



. Appena qualcuna ha del tempo libero si siede davanti alla Knesset e si mette all’opera. Io sono in pensione dunque posso venire tre o quattro volte alla settimana». Tally, insegnante e madre di tre bimbi, può farlo solo due. Come Hava, appena arrivata in compagnia del suo cane, sfollata da OrHaner - uno dei kibbutz scampati alla strage - e, al momento, alloggiata a Tel Aviv.

«L’importante è essere costanti: siamo già arrivate a 20 chilometri di maglia. Finora, però, eravamo pochi a scendere in piazza. Ma Israele si sta risvegliando»

, spiega Tally. Poi, all’unisono, esclamano: «Finalmente».


Alle loro spalle, Elezer Kaplan street, il grande viale che conduce alla Knesset, è una selva di centinaia e centinaia di tende da campeggio e banchetti. Li hanno montati domenica sera gli oltre centomila arrivati da tutto Israele e decisi a restare accampati fino a domani, quando l’Assemblea chiuderà per la pausa di primavera, per chiedere le dimissioni di Benjamin Netanyahu.
Dopo la prima notte difficile – la polizia ha sgomberato un gruppo di dimostranti che bloccavano l’accesso alla Road 1, l’entrata principale a Gerusalemme –, il sole estivo conferisce alla protesta un’area da campeggio urbano. Nei prati intorno o negli stand improvvisati, ci sono conferenze, gruppi di discussione, preghiere. I giovani prendono il sole sull’erba, mentre i più anziani cercano riparo sotto i tendoni. Ovunque la scritta in ebraico: «Tu sei il capo, tu sei il colpevole». Fin dal principio, gran parte dell’opinione pubblica israeliana aveva imputato al premier la responsabilità per non aver prevenuto l’attacco di Hamas. Traumatizzata e sotto choc, però, all’indomani della strage, la gente aveva interrotto i cortei contro la riforma giudiziaria dopo 52 sabati ininterrotti. A quasi sei mesi dall’inizio di un conflitto di cui non si vedono obiettivi chiari né fine all’orizzonte, il malcontento è riesploso. Più forte di prima. I partecipanti sono consapevoli della quasi impossibilità di ottenere una sfiducia immediata. L’obiettivo, però, è ricompattare un’opposizione variegata in modo da isolare il governo. E spingere le forze più moderate ad abbandonarlo.
Su Kaplan street ci sono gruppi di diverso orientamento politico, dai progressisti ai conservatori, e cittadini esasperati. Veterani delle proteste dell’anno scorso, riservisti e formazioni pacifiste. Oltre, ovviamente, ai parenti degli ostaggi , 134 dei quasi sono ancora nelle mani di Hamas, non si sa quanti vivi e quanti morti.
Riuniti intorno a due carri armati di legno, i “veterani dello Yom Kippur” mostrano con orgoglio un enorme cartone giallo su cui è incisa la Dichiarazione di indipendenza di Israele. «Questi sono i valori per cui abbiamo combattuto e per cui ancora ci battiamo», dice Inon, giunto dall’Alta Galilea. «Siamo qui per proteggere il Paese come lo abbiamo protetto durante la guerra del 1973», gli fa eco Eliazar, della zona di Tel Aviv. «Netanyahu non sta gestendo il conflitto – aggiunge Uri –. Si sta facendo gestire dall’ultra-destra e dal proprio interesse personale. Quello cioè di prolungare gli scontri il più a lungo possibile per restare al potere e non dover affrontare i tre processi che lo attendono».


Zoar tiene bene in vista le foto di quanti ha perduto al kibbutz Be’eri. Il padre, Yosi, ucciso come i vicini, altri sono stati rapiti. Lei stessa non ha più casa – «sono rimaste solo le piante del cortile», dice – ed è una dei duecentomila sfollati interni di questa guerra. «Almeno sono qui. Troppi non ci sono. Il governo deve salvare chi può essere salvato e, invece, non lo sta facendo».


Le attiviste in maglietta viola di “Mothers of the front” distribuiscono acqua e biscotti. «Siamo un movimento di madri dei soldati decise a ottenere la fine dell’esenzione alla leva per gli ultra-ortodossi. È una questione di uguaglianza di diritti e di doveri», spiega Michal. È stato il gruppo a portare la questione alla Corte Suprema che, da ieri, ha deciso di bloccare i fondi alle scuole religiose i cui allievi rifiutano di arruolarsi. Non ancora la rimozione dell’esonero ma un primo passo che ha già sollevato la rivolta dei partiti ultrà. Poco più in là, accovacciati per terra, bambini e ragazzi dipingono su una lastra, a lettere cubitali, la parola “shalom”, pace.

«Apparteniamo a vari gruppi pacifisti – spiega Iriat –. Il 7 ottobre ci ha colpiti duramente ma non ci ha sconfitti. Anzi, sempre più si stanno convincendo che la guerra non porta a nulla, tranne a mantenere Netanyahu al potere. Noi stiamo facendo la nostra parte per costruire un’alternativa. Chiediamo alla comunità internazionale di fare la sua per costringere le due parti a trattare. Non solo la fine di questo conflitto ma una soluzione integrale per il bene di israeliani e palestinesi.