No e ancora no. Tipi Livni, leader del partito centrista Kadima, ha rifiutato per la seconda volta la proposta del premier designato, Benjamin “Bibi” Netanyahu, di entrare a far parte di un governo di unità nazionale. Novanta minuti di faccia a faccia in un grande albergo di Tel Aviv non sono bastati a Netanyahu, leader del partito di destra Likud, per convincere la Livni ad appoggiare la sua iniziativa. L’attuale ministro degli Esteri è stata irremovibile. Pronta, dunque, ad andare all’opposizione. Anche se forse per poco. Netanyahu, ansioso di concludere con la “rivale” un accordo che avrebbe garantito equilibrio e stabilità al suo governo (che rischia altrimenti di essere formato di sole destre e di risultare, come tale, poco spendibile sul piano internazionale) le ha offerto una partnership su un piano paritario nella guida del processo di pace e due dei tre ministeri più importanti. Livni non si è fatta convincere. Mettendo avanti innanzitutto la questione dello Stato palestinese, considerato una minaccia potenziale dal Likud e invece obiettivo necessario per la Livni. In mattinata, un dirigente del Likud ha parlato in proposito di scuse pretestuose avanzate dalla Livni per esimersi dall’entrare in un governo allargato. Così, dopo l’incontro con Netanyahu, il ministro degli Esteri ha voluto ribadire, con tono piccato, che «la formula dei due Stati per i due po- poli non è affatto uno slogan privo di contenuto. È una questione di principio, di sostanza, non un espediente ». Altrettanto acidi i toni di Netanyahu, che ha detto di «aver fatto tutto il possibile per raggiungere l’unità» (e quindi per soddisfare le richieste del presidente Shimon Peres che gli ha affidato l’incarico), ma di non essere riuscito nell’intento a causa del «rifiuto categorico» ricevuto dalla Livni. Un rifiuto «arrivato in un’ora particolarmente critica», ha sottolineato con malizia Netanyahu, accusando implicitamente la rivale di comportarsi in modo irresponsabile. Netanyahu e la Livni non hanno escluso nuovi incontri. Ma tutto fa pensare che difficilmente ci sarà un terzo round. E Netanyahu, probabilmente, finirà per definire intese di governo con i radicali di destra di Israel Beitenu, con gli ortodossi di Shas e del Fronte della Torah, e con i nazionalisti della Casa Ebraica e di Unione Nazionale. Una coalizione non facile di sei partiti che lascia prevedere una coabitazione rissosa. Una coalizione, soprattutto, che potrebbe mettere in serio imbarazzo la nuova Amministrazione americana, impegnata con determinazione nel processo di pace; e che fa storcere il naso all’Unione europea, che ha già manifestato riserve in proposito. E che si sta muovendo con particolare attivismo nella regione. Ieri, nell’ambito del suo tour mediorientale, è arrivato nella Striscia di Gaza il capo della diplomazia Ue Javier Solana. L’intenzione è quella di verificare personalmente la devastazione causata nell’enclave dai 22 giorni dei bombardamenti israeliani. Solana non incontrerà però i leader di Hamas, che la Ue considera organizzazione terroristica. La missione di Solana precede di pochi giorni la Conferenza dei donatori per la ricostruzione di Gaza che si aprirà lunedì in Egitto. I 27 hanno annunciato uno stanziamento di 436 milioni di euro.