Medio Oriente. Nuovo round negoziale a Doha
I bambini di Gaza tra le macerie provocate dalla guerra
Il furore delle armi copre le parole felpate della diplomazia. «The last chance», l’hanno chiamata i familiari degli ostaggi che per «l’ultima opportunità» hanno convocato a raccolta oggi migliaia di israeliani che da Tel Aviv veglieranno sul negoziato. Destini incrociati e interdipendenti: i civili prigionieri di Hamas, i profughi nella Striscia, e un futuro con il rischio di espansione della guerra in una regione con 470 milioni di abitanti.
Adesso si parla di «trattative indirette», per non calcare la mano sulle momentanee assenze e sottolineando la nuova composizione del consesso diplomatico. Il lessico dei mediatori riscrive la grammatica del negoziato, che prevede un primo giro di 48 ore. Se è vero che l’Iran non sarà presente, avrà un ruolo attraverso la minaccia della “vendetta” contro Israele e il volume del fuoco per mano di Hezbollah in Libano e Houthi nello Yemen. Da Gaza i portavoce di Hamas fanno salire la contabilità dei «martiri» a quasi 40mila. Anche per questo all’inizio gli emissari dell’organizzazione non siederanno al tavolo di Doha, ma il Qatar (che con Egitto e Usa guida il negoziato) è anche il garante della protezione del politburo in esilio del movimento estremista, e nell’assedio di Gaza il “capo dei capi” Yahya Sinwar - alla sua prima tornatanegoziale da capo assoluto ma nascosto - non può infischiarsi dei qatarini. Tattiche che fanno prevedere l’ingresso di Hamas da domani, dopo che i negoziatori avranno cominciato a ribadire i punti fermi, misurando lo spazio di manovra degli israeliani. Secondo indiscrezioni, Netanyahu insiste sulla liberazione di 33 ostaggi vivi e non per il rilascio di soli 18 ostaggi vivi e 15 corpi, nella prima fase dell’intesa in tre tappe.
Con calcolato tempismo da Teheran l’ayatollah Khamenei ha fatto sentire la sua voce: «Dobbiamo fare affidamento sulle nostre capacità, non sopravvalutare il potere dei nemici e non piegarci alle loro richieste», ha detto lasciando credere che la rappresaglia è solo rimandata e che dipenderà tutto dal negoziato. Osama Hamdan, uno dei funzionari di Hamas a Doha, ha dichiarato all’Associated Press che il movimento parteciperà solo se i colloqui si concentreranno sull’attuazione della proposta americana di maggio. Durante l’intervista, Hamdan prima ha lanciato un messaggio sibillino: «Stiamo perdendo fiducia negli americani». Dagli Usa la rispsta è stata l’invio del capo della Cia, Wiliam Burns, il capo dei servizi segreti incaricato di chiudere il negoziato non necessariamente usando le armi della diplomazia.
Il membro del politburo di hamas , fino a due settimane fa guidato da Ismail Haniyeh, ucciso a Teheran, ha mostrato una serie di documenti. Dalla lettura si evince che in vari momenti Hamas ha tentato di aggiungere altri garanti – tra cui Russia, Turchia e Nazioni Unite – ottenendo il rifiuto di Israele. Le diverse proposte di cessate il fuoco prevedevano che le forze israeliane si ritirassero completamente da Gaza nella seconda fase dell’accordo. Ma di recente Tel Aviv ha introdotto nuove richieste per mantenere una presenza lungo il “Corridoio di Philadelphia”, una stretta fascia al confine tra Gaza e Egitto. Su un punto Hamas non è disposta a cedere: «Il cessate il fuoco è una cosa, la resa è un’altra».
La giornata era cominciata con la protesta delle famiglie degli ostaggi. Si sono presentate alla Knesset, il Parlamento israeliano a Gerusalemme, per denunciare il rischio flop, considerato che il premier aveva deciso di inviare a Doha solo il capo del Mossad, Daviv Barnea, senza quello dello Shin Bet, Ronan Bar, e l’inviato per l’esercito, Nitzan Alon. «Significherebbe lasciare le ragazze e gli altri a Gaza», hanno denunciato i parenti degli prigionieri. Ma nel pomeriggio il capo del governo ha riunito i suoi fedelissimi e comunicato che Israele avrebbe inviato in Qatar tutti e tre i negoziatori richiesti, aggiungendo Ofir Fleck, consigliere politico di Netanyahu.
Sul premier è in atto un assedio diplomatico. Il primo ministro deve allontanare il sospetto di voler far fallire i negoziati. Un’accusa che in questi mesi gli è stata rivolta ripetutamente da media ed esponenti politici, senza che l’interessato facesse molto per sgombrare i dubbi. Ieri con un gesto senza precedenti, gli ambasciatori di Stati Uniti, Gran Bretagna e Germania hanno convocato una conferenza stampa. «In nome dell’umanità è tempo che i rapiti tornino a casa – ha dichiarato l’ambasciatore Usa, Jack Lowe – il mio governo ritiene che sia importante continuare a lavorare con i mediatori per raggiungere un cessate il fuoco». A questo punto «tutti gli occhi e le speranze di milioni di persone – per usare le espressioni dell’ambasciatore tedesco Stefan Seibert – sono puntati sull’appuntamento di domani (oggi, ndr). Concludere un accordo, rilasciare i rapiti e porre fine alla guerra. Non c’è niente di più urgente di questo».
Quando tutto sembrava volgere al meglio, il ministro di ultra-destra Smotrich, nemico giurato del negoziato, ha presentato i nuovi piani per l’occupazione della Cisgiordania.