Di qua o di là purché al governo. Avigdor Lieberman, il leader del partito ultra-nazionalista Israel Beitenu, arrivato terzo, con i suoi 15 seggi, alle elezioni israeliane, ha passato la giornata di ieri tra lo studio di Tipi Livni e quello di Benjamin Netanyahu. Livni ha raccolto il maggior numero di voti: il suo partito, Kadima, ha ottenuto, in base ai risultati ufficiali, 28 seggi sui 120 della Knesset. Netanyahu, con il Likud, è arrivato secondo: 27 seggi. Kadima è una formazione di centro. Il Likud è una formazione di destra. Lieberman si è fatto due conti: con Netanyahu starebbe dalle parte per lui, (leader di estrema destra, intransigente e fortemente anti-arabo) più naturale. Inoltre, una coalizione di tutte le destre (laiche e religiose) godrebbe già, sulla carta, di una solida maggioranza di 65 deputati su 120. Problema? Un’alleanza di questo tipo, completamente sbilanciata a destra, difficilmente potrebbe funzionare in un Paese che non si può dimenticare della Cisgiordania e che necessariamente dovrà ritrovarsi a negoziare con i palestinesi (prospettiva, questa, “geneticamente” rifiutata dai partiti nazionalisti) . Quindi? Quindi, meglio dare un’occhiatina dall’altra parte, quella dove sta la Livni, che ieri si è affrettata a convocare Lieberman chiedendogli di entrare un un governo di unità nazionale. Per la Livni, concludere un accordo con Israel Beitenu sarebbe un colpaccio. È ideologicamente, politicamente, culturalmente, e anche anagraficamente, molto distante dal leader arabofobico e populista di Israel Beitenu, e questo potrebbe crearle non pochi imbarazzi. Ma l’attuale ministro degli Esteri, con la scaltrezza che l’ha contraddistinta nell’ultima ultima fase della campagna elettorale (a dispetto di quanti le hanno sempre rimproverato una scarsa esperienza politica) potrebbe “vendere” la cooptazione di Lieberman nel suo governo come un atto di real politik volto a “salvare” il Paese da una pericolosa deriva a destra. Lieberman farà le sue valutazioni. Per ora, si è limitato a dire che, pur «preferendo un governo nazionalista », non ha ancora deciso con chi stare. «La scelta sarà difficile», ha annunciato, lasciando prevedere lunghe contrattazioni sulla base di poltrone, ministri, ministeri e pregiudiziali necessarie. Prima fra tutte, la riforma della legge sulla cittadinanza, che, nella sua visione, dovrebbe imporre agli arabi di giurare fedeltà a Israele come Stato ebraico. Inoltre, Lieberman chiede la separazione della religione dallo Stato, il che è assolutamente inaccettabile per i partiti della destra religiosa (sabato il capo spirituale Rabbi Ovadia Yosef ha paragonato per questo Lieberman a Satana), come lo Shas, che pure nelle elezioni ha preso 11 seggi e che dunque chiederà di avere un adeguato peso in qualsivoglia esecutivo. La chimica difficile della destra lascia qualche speranza ai laburisti di Ehud Barak. Il voto è andato decisamente male: solo 13 seggi che hanno fatto del Labour, il partito alle radici dello Stato di Israele, con il fondatore Ben Gurion, la quarta formazione del Paese. Ma in tanti, «per il bene della pace», vogliono ancora credere nella prospettiva evidenziata ieri da un editoriale di Haaretz, ossia la «fusione» di Kadima e del Labour in un solo gruppo parlamentare che avrebbe così 41 deputati e si qualificherebbe come asse portante di qualsiasi coalizione. «I due partiti combinano moderazione e una decisa attenzione alla sicurezza, e fra loro non vi sono differenze ideologiche insormontabili», ha spiegato l’editorialista Aluf Benne. Ma resta solo un’ipotesi. Come un’ipotesi è quella che vedrebbe Livni e Netanyahu protagonisti di un meccanismo a rotazione sulla poltrona di premier durante i quattro anni della legislatura. Un po’ come accadde con il “patto di alternanza” Shamir-Peres del 1984. Possibilità che verranno valutate dal presidente Shimon Peres. Nei prossimi giorni avvierà le consultazioni per decidere a chi conferire l’incarico di premier. Abitualmente viene scelto il leader del partito che ha ottenuto più voti, in questo caso la Livni; ma non è escluso che venga fatto il nome di Netanyahu, visto che la destra ha più seggi e quindi più chance di formare un governo. Chiunque verrà incaricato avrà 28 giorni (più altri 14) per mettere insieme una coalizione. Ma sbrogliare il «pasticcio» uscito dalle urne è compito tutt’altro che facile. Sia Tzipi Livni che Benjamin Netanyahu si sono proclamati vincitori di questa tornata elettorale: l’attuale ministro degli Esteri perché con il suo Kadima ha ottenuto più voti; il leader del Likud perché, sulla carta, ha i numeri per formare solide alleanze a destra (Ap)