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Un paese al bivio. Iraq, comincia il ritiro Usa Sarà una nuova era?

Riccardo Redaelli domenica 28 giugno 2009
Per le strade irachene si avverte il cambiamento, con una ridotta visibilità delle truppe statuniten­si e un maggior schieramento delle forze di sicu­rezza nazionali irachene (ISF). I mezzi sono spesso gli stessi, ma sono diverse le divise e l’atteggiamento dei soldati – spesso decisamente meno marziale ma più a­michevole – che controllano i numerosissimi check­point. Mancano poche ore al ritiro delle forze militari sta­tunitensi dal controllo diretto delle città, previsto per il 30 giugno, la potenza militare che Washington ha quag­giù dispiegato per anni sembra farsi più pudica e quasi celarsi. Un ritiro che riduce ulteriormente l’esposizione quoti­diana lungo le strade delle truppe americane – e di con­seguenza ne diminuisce la vulnerabilità agli attacchi – ma che di converso chiede alle forze irachene l’assun­zione di rischi e responsabilità ben maggiori di quelle avute finora. È questa una delle prove decisive per l’Iraq uscito dall’invasione anglo-americana del 2003 e for­giatosi attraversando anni di spaventosa violenza e a­narchia. La capacità di mantenere un quadro di sicurezza accettabile basandosi principalmente sulle proprie for­ze, e di sostenerla nel tempo garantendo lo svolgimen­to di regolari nuove elezioni politiche generali nel gen­naio 2010, sarà decisiva. I segnali di questi ultimi mesi non sono del tutto inco­raggianti. Dalla primavera c’è stata una recrudescenza degli attacchi, non solo a Baghdad ma in gran parte del Paese. Pochi giorni fa, a Sadr City, una delle aree più pro­blematiche della capitale, una spaventosa esplosione ha mietuto dozzine di vittime, e nuove vittime si regi­strano quotidianamente. Anche a Falluja, la situazione sta peggiorando. Proprio questa città simbolo della re­sistenza sunnita e delle violenze, nelle cui strade nei pri­mi anni dell’occupazione i soldati americani avevano combattuto una sanguinosa battaglia, era poi divenuta uno dei simboli della rinascita irachena. Nel 2008 il cli­ma di concordia fra sunniti, sciiti e americani aveva per­messo il lancio di molti programmi di ricostruzione, con un allentamento delle ferree misure di sicurezza che se­paravano di fatto la vita degli 'internazionali' da quel­la della popolazione locale. Ora, purtroppo una serie di attacchi ha riportato la città a un clima di tensione e in­sicurezza, e si è ritornati agli usuali livelli di protezione. È però diversa la lettura di questo momento di passag­gio e di queste difficoltà. Negli ambienti governativi ira­cheni si ostenta un certo ottimismo: le difficoltà ci sono, ma esse non pregiudicheranno il cammino dell’Iraq, e il Paese saprà far fronte comune contro una eventuale re­crudescenza degli attacchi. Il primo ministro al-Maliki ha costruito il proprio prestigio e il successo elettorale sulla capacità del governo di mantenere – e se necessa­rio imporre con la forza – l’ordine e la sicurezza. Un bi­sogno molto più avvertito dagli iracheni rispetto alle di­scussioni sull’assetto federale dello stato, o sul bilancia­mento di poteri fra centro e governatorati provinciali. A Baghdad c’è voglia di normalità, di frequentare senza timore i mercati, di imbottigliarsi nel traffico caotico con il rischio di perdere solo del tempo, non la vita, di cena­re all’aperto lungo il Tigri con gli amici o la famiglia sen­za paura dei cecchini. Anche per sfuggire alla anorma-­lità, a volte un poco alienante, delle onnipresenti mu­raglie di cemento armato di cui la città è piena, dei con­vogli militari che fendono il traffico civile, dei posti di blocco, delle strade chiuse, del rumore continuo degli elicotteri, degli allarmi e degli spari. Negli ultimi due an­ni, grazie alla cosiddetta 'dottrina Petreus' (ossia la nuo­va strategia adottata dall’allora comandante militare sta­tunitense, generale Petreus) e alla rottura dell’alleanza fra jihadisti stranieri e capi tribali sunniti, l’Iraq ha vis­suto una progressiva, sia pur parziale, normalizzazione. E il governo al-Maliki è riuscito a beneficiare di ciò, ca­pitalizzando un forte seguito elettorale. Le difficoltà di questi ultimi mesi sottolineano, per altri commentatori, la fragilità e la precarietà di questo mi­glioramento. La caduta dei prezzi del petrolio e la crisi internazionale hanno ridotto le disponibilità finanzia­rie del governo. Meno soldi significa anche meno risor­se per assicurarsi la lealtà dei capi tradizionali, o delle milizie sunnite che avrebbero dovuto essere integrate nelle forze di sicurezza, ma che lo sono state solo in par­te. In particolare i cosiddetti Sons of Iraq, milizie tribali che sono state decisive per sconfiggere al-Qaeda e i com­battenti jihadisti e che sono state incorporate solo in minima parte, a dispetto di quanto precedentemente concordato. Preoccupa anche una certa deriva autoritaria del primo ministro. E a essere guardinghi non sono solo i curdi o i sunniti. La grande alleanza elettorale sciita è ormai a pez­zi, con una crescente divaricazione fra il partito dawa del primo ministro e l’Isci, il Consiglio islamico supremo del-­l’Iraq, che una volta era il movimento sciita più forte e or­ganizzato, ma che si è fortemente indebolito. In vista del­le elezioni di gennaio, in molti ritengono, che l’Isci o il mo­vimento sciita radicale di Muqtada al-Sadr cercheranno di 'complicare' la vita al primo ministro, per paura di es­sere sempre più marginalizzati politicamente. Anche molti parlamentari non apprezzano il decisioni­smo del primo ministro, in particolare i suoi rapporti troppo stretti con i comandanti militari, a cui al-Maliki si rivolge spesso direttamente, senza seguire i canali ge­rarchici usuali. Non sorprende quindi che il parlamen- to abbia di fatto privato di fondi il Consiglio nazionale di sicurezza, un organo strettamente collegato al gover­no e che sfuggiva al controllo parlamentare. Sempre in nome della sicurezza, si è deciso che le forze speciali anti-terrorismo e la Baghdad Brigade – ossia le forze militari che devono proteggere la zona interna­zionale, dove è concentrata la presenza delle ambasciate e della popolazione occidentale – rispondano diretta­mente al primo ministro. Un legame preoccupante per alcuni, ma che negli ambienti governativi viene giusti­ficato sottolineando l’esigenza cruciale di garantire la sicurezza dell’area in cui risiede la maggioranza dei di­plomatici e degli stranieri impegnati nell’attività di ri­costruzione presenti a Baghdad. E proprio il passaggio agli iracheni del controllo della Zo­na verde suscita inquietudine, tanto più che si pianifica una progressiva riduzione delle strade vietate al traffico civile, nell’ottica di una graduale normalizzazione. Preoc­cupazione non tanto per la sicurezza personale, ma so­prattutto per gli effetti che il successo di un attacco terro­ristico di rilievo potrebbe avere. Per fare un esempio: a lungo le Nazioni Unite sono state assenti dall’Iraq, dopo i duri colpi inferti loro dai jihadisti; ora sono tornate, con prudenza, a operare direttamente nel Paese. Un attenta­to contro di esse compiuto dopo il trasferimento della si­curezza ai soldati nazionali ne provocherebbe il probabi­le nuovo abbandono, con tutte le conseguenze negative. Per quanto suoni cinico, tanto le forze di sicurezza quan­to i nemici della stabilità (e non si tratta necessariamente solo di jihadisti) sanno che gli obiettivi occidentali cat­turano l’attenzione dei media internazionali molto più delle vittime irachene. Colpire duramente una rappre­sentanza diplomatica o degli operatori impegnati nella ricostruzione significa infliggere all’Iraq un danno che va ben oltre l’evento in sé. Significa bloccare investi­menti stranieri, ridurre la cooperazione, dare l’idea di un paese incapace di uscire dalla crisi. Per questo, per quan­to intrusive possano sembrare, le eccezionali misure di sicurezza saranno mantenute nella Zona verde. E ciò che è 'normale' a Baghdad, continuerà a sembrare mol­to 'anormale' in buona parte del mondo.