11 settembre. «Io nella redazione Reuters e il dramma sotto di me»
ettembre 2002: un anno dopo nel “buco” di Ground Zero
Il ricordo più chiaro, 20 anni dopo, sono le parole che mi risuonavano in testa. Morti. Terroristi. Fuoco. Disastro. Orrore. Si susseguivano senza sosta, ma non volevano dire niente. Mentre correvo da una scrivania all’altra della redazione, l’11 settembre 2001, non provavo assolutamente nulla. Ero arrivata alla Reuters, dove lavoravo come reporter, verso le nove meno dieci. Il quartier generale dell’agenzia è al 3 di Times Square: un grattacielo di 32 piani che sembra fatto di soli vetri. Il mio angolo di lavoro era al 30esimo. Attraversata la piazza e scansati i turisti, mi ero infilata in un ascensore, che si era fermato al 28esimo piano per raccogliere due colleghi. Mi avevano fatto un cenno di saluto, senza smettere di parlare: «Hai visto come è entrato nella torre? Nessuna esitazione ».
Non ebbi il tempo di fare domande perché le porte si aprirono sull’immenso open space, dove una decina di giornalisti si ammassavano lungo la vetrata che dava verso Sud. «Un aereo si è scontrato contro il World Trade Center», mi disse un’amica. Nel cielo blu di quella stupenda mattina di fine estate notai subito la spirale di fumo nero che si levava da una delle Torri gemelle, 4 chilometri in linea d’aria davanti a me. Com’era possibile che il pilota non avesse notato quei due enormi punti esclamativi? Poi guardai l’orologio: le 9 e due. Avevo una decina di minuti prima dell’intervista telefonica che avevo prenotato. Mi ero appena avviata verso la mia postazione quando un urlo mi fece voltare di nuovo: «C’è un altro aereo!». Con la coda dell’occhio vidi un oggetto che si schiantava nella seconda torre, scomparendovi come la lama di un coltello nel burro. Sentii subito le voci: È un attentato. È al-Qaeda. Qualcuno chiami la Casa Bianca.
Che cosa dicono dal Pentagono? E Bush dov’è? Fate uscire un titolo! Vidi i caporedattori che ripartivano i compiti. E altri che insistevano che dovevamo andarcene tutti. Non ci fu nessuna evacuazione. Al contrario, ricevemmo ordine dai pompieri di non lasciare l’edificio. Tutti si attaccarono al telefono. Io chiamai i miei genitori a Piacenza. Cercai anche di raggiungere Ross, il mio allora fidanzato, pure giornalista, che quella mattina aveva un appuntamento al World Trade Center. Non sapevo a che piano fosse diretto, né a che ora fosse uscito. Non ottenni risposta. All’improvviso la sala si fece buia. Qualcuno – il Fbi? la polizia? – ci aveva imposto di abbassare le veneziane e di spegnere le luci. Per non essere troppo visibili, dissero, come se un 747 avesse bisogno di qualche lampadina per individuare un grattacielo in pieno giorno nel mezzo di Manhattan. L’oscurità aumentò il senso di pericolo imminente, e la confusione. Mi ricordai dell’intervista. Dovevo chiamare un analista finanziario alla Cantor Fitzgerald, che operava al 102esimo piano del Word Trade Center. Composi il numero e qualcuno rispose: «Aiuto, mandate aiuto, siamo intrappolati, c’è stata un’esplosione, c’è un incendio ».
Poi riattaccò. Corsi dal mio capo, che mi rassicurò che i vigili del fuoco erano sul posto, poi preparò un breve lancio d’agenzia. Riprovai a chiamare Ross. Nulla. Avevo la sensazione di dover fare qualcosa, ma non sapevo che cosa, allora tornai alla finestra Sud, la sola con le persiane alzate. Una tv vicina catturò la mia attenzione: un reporter che faceva un servizio davanti al Wtc veniva improvvisamente sopraffatto da una gigantesca nuvola bianca. Guardai fuori: una torre non c’era più. Si era sbriciolata. Una collega mi si buttò fra le braccia, singhiozzando. Non so bene come passò il resto della giornata. Ross mi chiamò verso l’una del pomeriggio, da una cabina telefonica, perché le reti cellulari restavano inaccessibili. Stava bene, e si era trovato a due isolati dal Wtc quando il primo aereo l’aveva colpito. Ottenemmo il via libera a uscire solo dopo le 18, non so bene perché. Forse qualcuno si era dimenticato di noi. Per strada mi colpì l’odore. Acre è l’unico aggettivo che calza. E il suono incessante delle sirene. Un flusso costante di persone camminava verso Nord. Una processione di fantasmi coperti di cenere che si trascinava in mezzo a strade senza macchine. Nessuno parlava. Qualcuno zoppicava.
Mi avvicinai alla fermata del metrò e un poliziotto mi fece cenno di allontanarmi. Allora mi avviai nel senso contrario alla folla. Percorsi una trentina di isolati. Le strade erano sempre più coperte di carta. Fogli e foglietti dappertutto. Fatture, ordini di cancelleria, buste paga, schedine di agende telefoniche. Alcuni volteggiavano ancora a mezz’aria, dopo aver planato per centinaia e centinaia di metri. Sapevo che un aereo aveva colpito il Pentagono, che George W. Bush aveva dichiarato guerra al terrorismo. Avevo già sentito dire due o tre volte che «tutto sarebbe cambiato». E girava voce che alla Cantor Fitzgerald nessuno fosse sopravvissuto. Ma restavano solo parole. Grazie al tesserino della Reuters passai un primo blocco di polizia. L’aria era sempre più irrespirabile. Il fumo sempre più spesso. Sulla Terza strada c’era una caserma dei vigili del fuoco che conoscevo, dove pensavo di chiedere informazioni su vittime e dispersi. Davanti alla porta quattro pompieri in piedi, con il capo chino. Per terra una decina di candele, con passanti che ne posano altre. Un uomo che mormora una preghiera a occhi chiusi. Una donna che si avvicina a un vigile. Gli tocca una spalla e gli sussurra: grazie. Io mi siedo sul marciapiedi e lascio sgorgare le lacrime.