La crisi libica e il crollo del regime di Muammar Gheddafi hanno rotto il precario equilibrio del Sahel. Facendone esplodere le contraddizioni latenti. La “scatola di sabbia”, spesso considerata erroneamente vuota, si è popolata di bande criminali e jihadiste. I traffici illegali si sono sovrapposti ai crocevia commerciali. «Eppure, per la prima volta, c’è la diffusa speranza di una possibilità di miglioramento. Per questo, dobbiamo agire: ora». Da un anno, Romano Prodi è inviato speciale del Segretario generale Onu per il Sahel. Una frontiera troppo a lungo ignorata dall’Occidente e ora chiave nello scacchiere globale.
Perché il Sahel è diventato tanto importante?Non è importante. È importantissimo. La regione è formata da Paesi deboli come strutture, enormi come territorio e poverissimi. La guerra in Libia ha rotto anche il fragile status quo esistente. Il Sahel, dunque, è diventato una palestra per il terrorismo internazionale. Al contempo, ci sono stati anche dei primi passi avanti, perfino sul terreno economico. Certo, è un lavoro lungo. La cooperazione internazionale può avere un ruolo importante nel favorire le spinte verso il cambiamento ed evitare che la regione diventi la nuova patria del jihadismo.
Lo sviluppo dell’Africa conviene anche all’Europa, in termini di ripresa?Non nel breve periodo, ma nel lungo sicuramente l’Africa può dare un contributo significativo. Nel 2040 conterà due miliardi di persone e possiede risorse ingenti, prima fra tutte la terra. Per questo il continente meriterebbe maggiore attenzione. L’Italia, invece, è molto assente. Abbiamo perso la dimensione africana. Prima c’era una maggiore presenza in termini di lavori pubblici, di infrastrutture.
A gennaio terminerà il mandato come inviato speciale per il Sahel. Può fare un primo bilancio dell’esperienza?Abbiamo puntato sulla cooperazione regionale: i singoli Paesi non hanno né la capacità economica, politica, sociale né le dimensioni di mercato per poter gestire da soli il proprio sviluppo. Abbiamo, in particolare, favorire la realizzazione di piani di intervento comuni frutto dello scambio tra università ed esperti locali che, fino ad allora, non si erano mai confrontati. In secondo luogo, abbiamo stabilito le priorità: cibo, acqua, comunicazioni, scuola, sanità. Oltre a un grande progetto di solare decentrato. Sfruttando il sole – che non manca – si può risparmiare sulla costruzione di reti e dare finalmente energia a 20 milioni di persone che non ce l’hanno.
Come reperire le risorse?Abbiamo cercato di innovare, facendo sì che nell’ambito di piani coordinati dall’Onu e controllati dalla Banca africana per lo Sviluppo, i singoli Paesi possano collaborare non solo in denaro ma con progetti: scuole, ospedali, campi solari. Il tutto è ancora in via di costruzione. Speriamo che si faccia. Presto.