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L'ORDINARIO MILITARE. Pelvi: «Si sono sacrificati per il futuro degli afghani»

Gianni Cardinale sabato 19 settembre 2009
Salita del Grillo, Roma. Ci troviamo nella sede dell’Ordinariato militare per l’Italia, il giorno dopo il sacrificio di sei nostri soldati a Kabul. Incontriamo l’arcivescovo Vincenzo Pelvi, il presule che guida i cappellani con le stellette sparsi per l’Italia e il mondo. Compresi i due sacerdoti che assistono spiritualmente il contingente italiano in Afghanistan, a Kabul e ad Herat. Per un caso fortuito - non è scontato prendere la linea telefonica, anche se militare - proprio durante l’intervista monsignor Pelvi riesce ad avere un breve colloquio con don Salvatore Nicotra, il cappellano delle sei giovani vittime. La sua voce è trafelata, racconta lo sgomento e il comprensibile smarrimento dei commilitoni e a un certo punto aggiunge: «Eccellenza, alcuni di questi ragazzi erano credenti, molto credenti; quando sarà possibile le racconterò alcune storie edificanti che li riguardano...Alla messa di stasera (ieri per chi legge, ndr) riprenderò la lettera che ci ha inviato lo scorso 19 agosto».Eccellenza, dopo Nassiryia, una nuova strage di soldati italiani in missione di pace...È una tragedia. Penso alle famiglie dei sei giovani. Al loro dolore. Che il Signore li aiuti a vivere con fede e speranza questi momenti umanamente terribili. Ma questa drammatica occasione deve aiutarci anche a riflettere seriamente sul significato della nostra presenza in questa missione umanitaria di pace.In che senso?Ci tengo a sottolineare l’importanza positiva di questa nostra missione. Soprattutto per le popolazioni locali, che grazie alla nostra presenza possono avere speranza per un futuro più prospero e rispettoso dei diritti umani.Ma questi attentati mostrano che forse non da parte di tutte le popolazioni locali c’è questo apprezzamento...Non direi. Gli attentati terroristici sono opera solo di alcuni. Ma non rappresentano il comune sentire del popolo. La nostra missione in Afghanistan, come in altri teatri operativi - l’ho potuto constatare anche di persona - è di pace, perché porta stabilità e sviluppo per le popolazioni locali. Ma non solo.Cioè?Queste missioni servono a difendere anche la nostra sicurezza nazionale, e quella dell’intero Occidente, dalla minaccia del terrorismo globale. E hanno una funzione positiva per la crescita umana - e anche spirituale - di chi vi partecipa.Per qualcuno può risultare un po’ difficile immaginarlo.È così, mi creda. Potrei dire che le missioni, in realtà, nell’animo di chi vi partecipa hanno un inizio e mai un termine, perché si prolungano in Italia attraverso gesti concreti che vanno dall’accoglienza presso le abitazioni dei militari di bambini, all’adozione a distanza di famiglie. Dalla creazione di iniziative per il sostegno di fasce deboli della popolazione all’assistenza sanitaria di malati curati presso strutture o famiglie in Italia.Sono iniziative che vedono coinvolto anche l’Ordinariato?Certamente. Attraverso la generosa sensibilità dei cappellani militari, la Chiesa motiva e sostiene progetti di carità a vantaggio dei più deboli, ovunque si trovino, di qualsiasi religione essi siano. Tutti devono sapere come gli sforzi dei nostri militari contro la povertà, unitamente a quello dei loro cappellani, stiano seminando una mentalità di un futuro più sereno e rappacificato nel mondo.Don Nicotra, il cappellano delle truppe a Kabul, le anticipava che avrebbe ripreso la sua lettera del 19 agosto. Perché l’aveva scritta?L’avevo fatto per far sentire la mia vicinanza e quella della Chiesa tutta in un momento che si prefigurava particolarmente delicato, come quello delle elezioni presidenziali, che si sono tenute il giorno successivo. “Mi stai tanto a cuore” l’avevo intitolata. E non era un’affermazione di circostanza. Quei soldati mi stanno veramente a cuore. Come dovrebbero stare a cuore a tutti gli italiani. In quella lettera poi ricordavo l’enciclica di Benedetto XVI Caritas in Veritate ed evidenziavo come le missioni di pace ci stanno aiutando a valutare da protagonisti il fenomeno della globalizzazione, da non intendere come semplice processo socio-economico, ma soprattutto come criterio etico di relazionalità, comunione e condivisione tra popoli e persone.Quindi ritiene che non sia giusto oggi pensare di rinunciare a queste missioni?Non voglio sostituirmi alle autorità politico-istituzionale che devono prendere le decisioni che a loro spettano. Invito solo a non prendere decisione affrettate. E a riflettere bene su quanto hanno fatto e potranno fare di bene i nostri soldati in queste missioni. Alle popolazioni locali e a noi tutti.