L'ultima, la Alianza del Pacífico, ha appena venti mesi. È trascorso meno di un decennio da quando il defunto leader venezuelano Hugo Chávez lanciò, nel 2004, l’Alba – Alianza bolivariana para los Pueblos de Nuestra América – con l’obiettivo di creare un “fronte comune” contro il “potente vicino del Nord”, gli Stati Uniti. Da allora, la spinta verso l’integrazione latinoamericana ha perso il carattere rivendicativo ma non lo slancio. Al contrario. In nove anni sono state costituite ben tre organizzazioni – Unasur, Celac e Alianza del Pacífico – per promuovere la collaborazione politica e l’interscambio economico all’interno del Continente. L’attivismo ha contagiato tutte la nazioni. Anche quelle per tradizione più “lontane” e protese verso l’altra sponda dell’oceano. «Abbiamo ormai chiaro un assioma fondamentale: insieme siamo più forti, più dinamici, più vitali», afferma Alfredo Moreno, ministro delle Relazioni estere del Cile. Una nazione quest’ultima particolarmente attiva nello scenario regionale: primo presidente del Celac, Santiago è stato uno dei motori della recente Alianza del Pacífico. «L’idea è quella di integrare le economie degli Stati membri non solo in materia di libero commercio, ma anche di circolazione di capitali e di persone. Ci siamo ispirati all’Unione Europea. Certo per ora è solo un abbozzo, però abbiamo ottenuto ottimi risultati in breve», afferma il cancelliere, a Roma per la VI Conferenza Italia - America Latina e Caraibi. Agli originari fondatori – Cile, Colombia, Messico e Perù – all’Alianza si sono aggiunti 25 Paesi osservatori, tra cui l’Italia. Mentre Panama, Guatemala e Costa Rica stanno avviando il procedimento di adesione.
A che cosa si deve un tale fermento? Che cosa sta accadendo nel Sud di quel Nuovo Mondo, troppo a lungo scomparso dall’orizzonte culturale ed economico del Nord del pianeta?C’è un forte attivismo in chiave regionale. Perché ora? Risponderei perché non prima. A parte il Brasile e qualche eccezione caraibica, gli Stati del Continente hanno una lingua comune, una cultura affine e rapporti di vicinato discreti. Di certo, l’onda democratica che ha “travolto” positivamente l’America Latina ha dato un impulso fondamentale all’integrazione. Insieme dalla recente crescita, trainata dal boom dei prezzi delle materie prime. Parliamo di una media del 3 per cento. In Cile sfioriamo il 5. Eppure il commercio interregionale è ancora basso: solo il 29 per cento degli scambi avviane all’interno del Continente. In Europa parliamo del 70.
A che cosa si deve questa difficoltà?All’insufficienza di infrastrutture. Non esiste un treno né un’autostrada che unisca la costa pacifica con quella atlantica. Per comprare il gas dal Perù siamo costretti a un’improbabile triangolazione con Usa e Caraibi. Un esempio per tutti: il Paso de los Libertadores, l’unico passaggio andino tra Cile e Argentina, resta chiuso per cause climatiche tra i 30 e i 60 giorni l’anno. Il danno per il commercio è evidente. Attenzione: vorrei ribadire che l’integrazione regionale non è un modo per isolarci dal resto del mondo. Al contrario. Non a caso, la Alianza del Pacífico non prevede alcuna barriera doganale “in entrata”.
Eppure si dice spesso che l’ingombrante ombra di Washington abbia in qualche modo frenato l’integrazione latinoamericana...Sono convinto che la crescita dell’interscambio e della cooperazione latinoamericana convengano a tutti. La globalizzazione ha rimpicciolito il mondo. E la crisi lo ha dimostrato in modo drammatico: nessuno può farcela da solo. I rapporti tra Continenti, Paesi ed emisferi sono importanti anche per gli Stati Uniti. E per l’Europa.
Ecco, veniamo all’Europa. Che, forse per la crisi, sta “riscoprendo” l’America. Crede che questa possa essere una via d’uscita dalla recessione?Direi che siamo in una fase di “riscoperta” reciproca. Purtroppo siamo abituati a pensare ai rapporti tra Paesi come una partita tra vincitori e perdenti. Penso, al contrario, che si possa vincere entrambi. Poiché uno ha ciò che all’altro manca. A Usa ed Europa occorrono materie prime. A noi mancano manodopera qualificata e tecnologia per poter fare il “salto di qualità”. Possiamo, dunque, essere una soluzione al problema della disoccupazione europea. Non a caso i flussi migratori si stanno invertendo. Il Cile, ad esempio, ha lanciato tre anni fa il programma “start up” per dare opportunità ai giovani imprenditori in fuga dall’intricata rete burocratica di molti Paesi del Nord del mondo. Il piano garantisce ai beneficiari un permesso di soggiorno per un anno, sgravi fiscali del 20 per cento e un contributo di 40mila dollari per iniziare l’attività. Abbiamo già ricevuto oltre 1. 500 domande da una quarantina di nazioni differenti. L’apporto straniero, dunque, ci sta permettendo di trasformarci in un polo di attrazione delle eccellenze sul piano internazionale. Nel frattempo, occorre migliorare il sistema educativo in tutta l’America Latina. Sarà una delle principali sfide dei prossimi decenni.
Quali sono le altre?Combattere la violenza e il narcotraffico. Emergenze anche queste da affrontare su un piano internazionale. Per questo, anche se ne è toccato meno di altri, il Cile è impegnato nel sostenere il processo di pace in Colombia, cronico focolaio di instabilità del Continente.