Intervista. «Netanyahu ha rotto il tacito patto sociale tra le parti in Israele»
L'analista Sergio Della Pergola, professore emerito all'Università Ebraica di Gerusalemme e tra i più attenti osservatori della realtà israeliana
«Certo: c’è una forte contrapposizione all’interno della società israeliana. Ma la questione è innanzitutto politica, e l’attore fondamentale è Benjamin Netanyahu: è stato lui che, per un tornaconto personale e politico, ha scelto, strategicamente, di dividere». E dunque proprio da qui bisogna partire secondo Sergio Della Pergola, professore emerito all’Università Ebraica di Gerusalemme e tra i più attenti osservatori della realtà israeliana.
In che modo il premier avrebbe innescato le tensioni tra le nuove “tribù” di Israele?
Dichiarando, in campagna elettorale, che avrebbe fatto un governo di destra-destra. È stata una scelta politica legittima, ma che io considero sciagurata. Bibi Netanyahu ha detto: questi sono i nostri amici, quelli sono i nostri nemici. Ha operato l’escorporazione di una buona metà della società civile, e ora ne vediamo le conseguenze.
Ha una solida maggioranza. Non rientra tutto nella naturale dialettica con l’opposizione?
Se tu pretendi di cancellare la controparte, che peraltro rappresenta più del 50 per cento dell’elettorato, e la accusi addirittura di tradimento, no, decisamente non siamo nella cornice di una naturale dialettica politica.
Non ritiene che, comunque, le divisioni sarebbero emerse, prima o poi?
Emergono da sempre, in realtà. E da sempre vengono superate, in nome della convivenza. Cito, a titolo di esempio, la comunità charedi. Si riconoscono in due partiti, Shas e United Torah, ma a sua volta United Torah è divisa in due gruppi, i chassidim e i cosiddetti lituani, che non si possono proprio sopportare. Tutti, in sede di voto, confluiscono da una parte sola, perché altrimenti non supererebbero la soglia del 3,25%. Si tratta di matrimoni combinati che però in qualche modo hanno sempre funzionato. Ora il patto sociale tra tutte le componenti è stato rotto. Da un premier che, tragicamente, passerà alla storia proprio per questo.
E la frattura tra laici e religiosi?
Preferisco parlare di una divisione tra forze costituzionali e forze anti-costituzionali: tra un centro democratico e legalista (la sinistra è di fatto moribonda) che sta cercando di tutelare l’ordine costituito, e una destra refrattaria a questo sistema di regole. Scelgo questa categorizzazione perché, per esempio, c’è piena convergenza tra gli ultranazionalisti religiosi e gli ultranazionalisti laici, e quasi tutti votano per il Likud, gruppo che sta subendo una specie di mutazione antropologica sotto la guida di Netanyahu: ha attirato nel partito così tanti personaggi discutibili da finire per essere, lui, proprio lui, il più moderato di tutti. Lo stesso vale per i coloni: sono in gran parte religiosi, ma c’è una fetta di laici che vive negli insediamenti semplicemente perché cerca una casa a buon prezzo.
Resta il fatto che l’insofferenza verso gli ultraortodossi cresce.
Sono arrivati al governo con una fama di potere smisurata, e stanno alzando il prezzo su tutto. A cominciare dalla non partecipazione all’esercito. Un premier capace, che avesse a cuore il destino del suo Paese, si metterebbe in ascolto, cercherebbe una mediazione sulla riforma, farebbe delle rinunce, amplierebbe la compagine governativa, rendendola più rappresentativa dell’esistente: se una nazione si trova in una specie di emergenza, servono soluzioni di emergenza. Non sta succedendo niente di tutto questo.
Netanyahu farà un passo indietro?
Credo di no. Lo scenario a cui penso è quello, tragico, del governo Tambroni, nel 1960. Per la prima volta dal 1945 incluse il Movimento Sociale insieme alla Democrazia cristiana. Cominciarono grandi sommosse in molte città. Ci furono morti, a Genova e in Sicilia. Con il sangue nelle strade, il governo dovette dimettersi. Spero davvero di non dover vedere qualcosa del genere in Israele.
Se si votasse domani?
Il governo perderebbe le elezioni. Ma si creerebbe il solito problema di una maggioranza anti-Netanyahu che potrebbe reggersi in piedi solo includendo il voto della comunità araba, e la comunità araba ha una rappresentanza frammentata e instabile: i loro franchi tiratori sono stati all’origine della caduta dell’esecutivo Bennett-Lapid, di cui faceva parte Raam, la formazione di Mansour Abbas, uomo politico interessante e portatore di un’idea nuova di integrazione politica. C’è, d’altra parte, una fascia della popolazione che considera illegittimo un governo che comprenda gli arabi. Tipica empasse della politica israeliana: vogliamo un Paese solo per gli ebrei o un Paese ebraico e democratico, aperto alle minoranze che vogliano collaborare? La risposta a me viene facile.