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Cento giorni di guerra. Parla l'Esercito: «Inevitabile quella pressione nel nord»

Barbara Uglietti, Tel Aviv domenica 14 gennaio 2024

Soldati israeliani sui loro tank al confine con Gaza

La base delle Forze di Difesa israeliane è un compound nella zona nord di Tel Aviv. I soldati, quasi tutti giovanissimi, sono attaccati ai telefoni, ai computer, agli schermi. Accolgono con un cenno veloce chi arriva a fare domande, sorridono; nessuna traccia di diffidenza nello sguardo, cosa molto strana per chi conosce Israele e gli israeliani: tre mesi di guerra hanno rinforzato identità e certezze, tutti danno l’impressione di essere esattamente dove vogliono a fare esattamente quello che devono. Il maggiore David Baruch, portavoce dell’Idf, apre e richiude due o tre porte, trova un ufficio vuoto. «Mettiamoci qui». Fa parte dell’unità militare, guidata dal generale di brigata Daniel Hagari, che dal 7 ottobre prova a spiegare al Paese e al mondo le operazioni militari a Gaza, i rischi, le strategie; che prova a spiegare le minacce, i tunnel. I morti.

Ecco: come spiegare, maggiore Baruch, 23mila morti?

Per come la vediamo noi, sarebbe difficile “spiegarne” anche 23. La guerra è una tragedia sempre, è non-etica per definizione. Non la volevamo, non l’abbiamo cercata, ci è stata dichiarata con un attacco atroce e ora dobbiamo combatterla. Tutto il mondo riconosce che Israele ha il diritto di difendersi, poi, però, quando ci difendiamo, veniamo criticati. Bisogna anche sapere guardare dietro quello che succede. Le assicuro che se si fosse trattato di un combattimento esercito-contro-esercito in un paio di giorni la cosa sarebbe stata risolta. Il problema è proprio l’utilizzo che Hamas fa dei civili: sono la loro arma più efficace e la manovrano senza scrupoli. Prima di ogni bombardamento abbiamo lanciato migliaia di volantini, attivato sistemi tecnologici, fatto centinaia di telefonate per avvisare la popolazione, per chiedere venissero evacuate le zone sottoposte a raid. Non sono “dettagli”: quale altro esercito, nella storia, ha fatto qualcosa del genere? In molti casi ha funzionato. E se non ha funzionato è perché Hamas ha impedito alla sua stessa gente di salvarsi.

Ci sono criteri di proporzionalità da rispettare, c’è il Diritto di guerra.

Il Diritto di guerra stabilisce che la violenza sia proporzionale agli obiettivi militari da raggiungere. Noi abbiamo due target: azzerare il potenziale offensivo di Hamas e riportare a casa gli ostaggi. Ora: Hamas è entrata nel nostro territorio a fare quanto di peggio essere umano possa concepire, ha usato ordigni termo-barici contro mamme e bambini nei kibbutz, ha sparato migliaia di missili sempre più potenti, ha creato un’infrastruttura sotterranea estremamente estesa e capillare da cui ha minacciato l’esistenza stessa del nostro Paese: nove milioni di persone. Smantellarla era il nostro primo dovere. E l’abbiamo fatto. Mi permetta di sottolineare che proprio grazie a quell’azione massiva siamo riusciti a creare un perimetro di sicurezza intorno all’ospedale Al-Shifa per poi distruggere tutte le gallerie che Hamas aveva creato nel sottosuolo senza intaccare l’operatività della struttura sanitaria. Ma anche questo sembra essere “irrilevante”. Ancora: è grazie anche a quella pressione imposta a nord che siamo riusciti a riportare a casa una parte degli ostaggi. E riporteremo a casa gli altri.

Se la parte nord di Gaza è sotto controllo, perché, 100 giorni dopo, lanciano ancora razzi verso il territorio israeliano?

Perché hanno sviluppato tecnologie avanzate. Non si tratta più dei rudimentali Qassam. La gittata è aumentata, e il controllo da remoto è un dispositivo di queste dimensioni - accosta due telefoni cellulari -. Tirano da sud, adesso, ma la minaccia è infinitamente ridotta rispetto a tre mesi fa. Erano, devo ammetterlo, molto organizzati: battaglioni, brigate, equipaggiamenti, divise. Divise che ovviamente si guardano con attenzione dall’indossare, in modo da rientrare nel computo dei “civili” se uccisi o catturati. Riteniamo abbiano infestato l’area di Khan Younis, dove stiamo concentrando la nuova fase delle operazioni, che potrà essere più specifica proprio grazie alle condizioni di relativa sicurezza create a nord.

Si dice che non riuscirete mai a battere Hamas perché lideologia sopravviverà

Il nostro compito è azzerare una minaccia “fisica” al nostro popolo. Non si può combattere un’idea con le armi. Le idee sono compito della cultura, della scuola. Nelle nostre scuole studiano, insieme, bambini ebrei, cristiani e musulmani. Nelle loro si insegna che Israele va cancellata, “from the river to te sea”. Bisognerebbe chiedere alle organizzazioni internazionali che le finanziano, quelle scuole, come sia possibile che ciò accada.

A nord Hezbollah sta aumentando il livello delle provocazioni. Che restano, per ora, provocazioni.

Non sottostimerei l’insidia. Stanno utilizzando artiglierie anti-tank per evitare il nostro sistema anti-missile Iron Dome. Prendono di mira i palazzi, le case delle nostre comunità: abbiamo dovuto spostare 80.000 persone. In un tempo normale, ogni lancio costituirebbe un casus belli, ma non vogliamo un allargamento del conflitto, sebbene pronti, nel caso, ad affrontarlo. Per ora gestiamo la minaccia tatticamente. Va ricordato che Hezbollah è anche un partito politico, che Hezbollah è responsabile per quello che accade nel sud del Libano e che il Libano è responsabile per quel che fa Hezbollah. Il popolo libanese deve decidere se vuole che Hezbollah porti la distruzione in Libano a beneficio di Hamas. La finestra diplomatica di possibilità si sta rapidamente chiudendo.

Molti si aspettavano, aspettano, lapertura di un terzo fronte in Cisgiordania.

Anche lì non abbiamo alcun interesse a un’escalation. Evidentemente neanche loro. Ci sono però attività terroristiche rilevanti nell’area di Jenin, dove sono presenti molti operativi di Hamas e lì stiamo intervenendo con continuità.

E ci sono poi gli Houthi, nel Golfo.

Sì, e non è un problema solo nostro: è una questione internazionale. Si stanno prendendo vantaggio della situazione come sciacalli. Qualche giorno fa hanno colpito una nave cinese nel Golfo che non c’entrava proprio nulla con la guerra. Gli egiziani per primi cominciano essere stanchi di questa situazione che compromette i commerci e fa schizzare i costi delle materie prime. Come sappiamo, dietro agli Houthi, come dietro tutti gli altri attori di questo conflitto, c’è il solito burattinaio: l’Iran.

Nei giorni scorsi si sono registrate forti tensioni tra i vertici del governo e i vertici di Idf. Il capo di Stato maggiore Herzi Halevi è stato addirittura criticato per aver avviato un'inchiesta interna sull'uccisione per errore di tre ostaggi.

Io indosso una divisa e rispondo per la mia parte. Noi militari continuiamo a chiederci dove abbiamo sbagliato e perché, e continueremo a farlo, persino nel mezzo di una battaglia, perché ne va della nostra vita e di quella degli altri. E’ l’unico modo per imparare dai nostri errori.

Lei è un riservista e tre mesi fa lei ha dovuto accompagnare suo figlio al fronte. Cosa dice un padre a un figlio che va in guerra?

E’ stata la cosa più difficile che io abbia dovuto fare in vita mia. Ma ho detto a mio figlio quello che qualunque altro padre in Israele direbbe a un figlio o a una figlia che va al fronte: che conosciamo perfettamente le ragioni che ci sono dietro tutto questo, che dobbiamo fare tutto ciò che è necessario fare per difendere il nostro Paese, la nostra casa. L’unica che abbiamo.

(Ha collaborato Fiammetta Martegani)

Soldati israeliani a Gaza - Reuters