Intervista. «La tregua apre spiragli per Gaza. Ma dubito che Israele saprà coglierli»
Gershon Baskin
«Si è aperta una finestra di opportunità. Ma dubito che si riesca a coglierla». Per israeliani e palestinesi, il nome di Gershon Baskin è sinonimo di mediatore. Da 46 anni, l’attivista per la pace e analista, nato negli Usa da una famiglia ebrea dove ha vissuto prima di trasferirsi a Gerusalemme, non si stanca di annodare i fili fra i due popoli che la politica e il fanatismo fanno di tutto per spezzare definitivamente. Il risultato più noto è stato il rilascio del soldato Gilad Shalit nel 2006, dopo 1.940 giorni di prigionia nelle mani di Hamas. In seguito, ha continuato a lavorare con i leader del gruppo armato per allentare il blocco di Gaza e evitare ulteriori esplosioni di violenza. Purtroppo l’intransigenza ha fatto procedere i fatti in direzione opposta, fino all’attuale bagno di sangue. Per questo, «il cessate il fuoco tra Israele e Libano è una buona notizia. Hezbollah, molto indebolito, ha accettato di mettere fine alla guerra sul fronte nord prima dello stop alle armi nella Striscia, contrariamente a quanto aveva a lungo detto».
Quali conseguenze potrebbe avere la tregua sull’enclave?
Potrebbe fare da volano per un accordo o renderlo ancora più difficile. La situazione è estremamente fluida. Al momento, abbiamo due indizi. Una dichiarazione – per quanto non ufficiale – della dirigenza di Hamas che esprime interesse per un cessate il fuoco. Niente di nuovo, in realtà. Il gruppo armato lo ha detto più volte. Prima, però – e questa resta la condizione imprescindibile per la liberazione degli ostaggi – chiede il ritiro israeliano e la garanzia della fine della guerra. Quanto, cioè, Benjamin Netanyahu non vuole. Al contempo, oggi una delegazione egiziana verrà in Israele per colloqui su una tregua per la Striscia.
Sarebbe possibile prima dell’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca?
È possibile ma poco probabile.
Come crede che Hamas abbia reagito alla notizia dello stop sul fronte nord?
Dentro Hamas, alcuni si sentono traditi dall’alleato Hezbollah. Allo stesso tempo, però, il gruppo armato è consapevole degli enormi perdite subite a quest’ultimo e al Libano. Non può, dunque, biasimare la scelta di una tregua, fatta oltretutto su forte pressione della popolazione, stremata dal conflitto.
E le famiglie degli ostaggi israeliani?
Queste sanno di essere state abbandonate tanto, tanto, tanto tempo fa. Il governo ha deciso di sacrificare i rapiti.
Il disimpegno a nord significherà una pressione ancora più forte su Gaza?
Quale ulteriore potrebbe mai esercitare Israele? La Striscia è stata rasa al suolo.
Potrebbe, ad esempio, dare il via alla ri-occupazione del nord dell’enclave...
Di certo questo è quanto vogliono alcune componenti oltranziste del governo. Ma non credo passerebbero dalle parole ai fatti prima dell’inizio del mandato di Trump per avere una copertura politica. Non è detto nemmeno che il presidente Usa sia davvero disposto a dargliela. Il punto è che Netanyahu non ha una strategia di lungo periodo per Gaza: colonie o zona cuscinetto o governo indipendente? Non si sa. Il premier cerca solo di prolungare il conflitto all’infinito.
Chi potrebbe governare la Striscia alla fine della guerra?
Né Israele né Hamas. Lo stesso gruppo armato, come mi ha mostrato nella bozza di accordo del 10 settembre, si è detto disposto a lasciare il potere. Resterebbe a Gaza pur senza governarla. Nemmeno l’Autorità nazionale palestinese (Anp) di Abu Mazen è in grado di assumersene la responsabilità. È apparso chiaro nell’incontro tra Hamas e Fatah di qualche settimana fa: un governo di unità fra i due partiti è fuori discussione. Ad Abu Mazen non resta che nominare un premier credibile con funzioni esecutive piene. Il nome ce l’avrei: l’ex diplomatico Nasser al-Kidwa.