L'intervista. Petito: «Il domani non può che appartenere alle nazioni emergenti»
Il professor Fabio Petito, docente di Relazioni Internazionali all’Università del Sussex
Il futuro appartiene ai Paesi emergenti. È l’idea del mondo che verrà di Fabio Petito, docente di Relazioni Internazionali all’Università del Sussex e direttore del programma Religioni e relazioni internazionali dell’Ispi.
Professore, come immagina il mondo tra dieci anni?
Molto dipenderà dalle leadership delle grandi potenze. E questo vale anche in uno scenario a cinque anni. Un punto chiave saranno le elezioni presidenziali americane. Ma ci sono tante altre variabili da considerare come la tenuta del Partito comunista in Cina. A medio termine direi che a fare la differenza saranno le potenze emergenti. L’ultima riunione dei Brics è stata la configurazione istituzionale di questa tendenza. Fra 50 anni, ampliando la prospettiva, l'ordine globale sarà multipolare e meno occidentalocentrico.
Quali sono le nazioni da tenere particolarmente sott’occhio?
Direi, appunto, i Paesi del Brics, Brasile, Russia, India, Cina, India e Sudafrica. Interessanti sono anche le medie potenze del G20 che sono sempre più indipendenti sullo scacchiere internazionale.
Ci saranno opportunità per l’Africa?
L’Africa è un immenso continente non solo in termini geografici. Immense sono le sue risorse umane, le potenzialità di innovazione e creatività. La gran parte dei giovani del mondo è africana. Dove ci sono giovani c’è creatività. Per l'Africa intravedo sicuramente grandissime opportunità ma anche crisi.
Il mondo multipolare è più instabile?
Più poli di potere aumentano i rischi di tensione. Questo nodo è legato alla questione sollevata qualche giorno fa dal Segretario Generale dell’Onu, António Guterres, sull’inadeguatezza dell’attuale sistema di global governance che è stato disegnato in un momento preciso, alla fine della Seconda guerra mondiale, che rifletteva la distribuzione di potere dell’epoca.
Come riformare le organizzazioni internazionali?
L’Occidente dovrebbe riconoscere che l’attuale sistema, quello in cui detiene una posizione di forte privilegio, non può reggere senza graduali concessioni a favore delle potenze emergenti. Adesso è anche un po’ difficile parlarne perché l’Occidente è compatto nel sostegno all'Ucraina. Ma occorre guardare più in là e capire che se il sistema non cambierà per volontà politica cambierà, ahimè, con la forza.
Che ne sarà dell’Europa?
Il futuro dell’Europa dipenderà dalla capacità di trovare una voce più indipendente sulle posizioni da prendere sullo scacchiere internazionale. Ciò non significa abbandonare le relazioni transatlantiche ma prendere consapevolezza del fatto che gli interessi nordamericani potrebbero non convergere più con quelli europei.
Cosa che le fa più paura?
L’escalation nucleare. A prescindere dalle minacce di Putin, trovo preoccupante il fatto che il processo di denuclearizzazione avviato durante la Guerra Fredda si sia in pratica interrotto. Negli ultimi vent'anni abbiamo assistito ad una sorta di rinazionalizzazione delle potenze nucleari. Ciò è avvenuto anche a causa dei conflitti in Iraq e in Afghanistan. La percezione allora diffusa nel sud globale è che quei Paesi non sarebbero stati invasi se avessero avuto il nucleare.
In cosa ripone le sue speranze?
Credo in uomini capaci di scelte visionarie. E nel bisogno di adottare il dialogo tra civiltà come modello per il nuovo ordine. Dire che l’Asia sta diventando economicamente il centro del mondo significa accettare l’idea che debbano trovare più spazio anche le tradizioni che la contraddistinguono. In questo contesto si distingue papa Francesco. Il documento sulla fratellanza umana, firmato dall’imam di al-Azhar, è a suo modo rivoluzionario. Affronta il tema dell’universalismo dei diritti umani e della libertà religiosa con un linguaggio nuovo che anche i musulmani sentono più vicino. Le fondamenta del nuovo mondo saranno stabili se fondate nel riconoscimento della molteplicità culturale e religiosa.