«Li vediamo il venerdì, di solito. Sono i rifugiati subsahariani. Vengono qui in chiesa, chiedono aiuto, cercano lavoro. Noi facciamo tutto quello che possiamo, con i mezzi esigui che abbiamo. Ma l’importante è testimoniare la nostra presenza e il fatto che la Libia deve ritrovare il senso della vita, della pace».Non è facilissimo condividere l’ottimismo di monsignor Giovanni Martinelli, vicario apostolico di Tripoli, che per anni ha avuto a che fare con il regime di Gheddafi e ora dialoga con la stessa tenacia con il Consiglio Nazionale di Transizione. La chiesa trabocca di fedeli in questo insolito “Venerdì delle Palme”, aperto appositamente ai fedeli nello stesso giorno di preghiera per i musulmani, in segno di fratellanza.
Ma esiste un interlocutore ufficiale oggi a Tripoli?«Il nostro è il ministero degli Affari Esteri. È a loro che mi rivolgo ufficialmente».
Con che risultati?«Sappiamo bene che siamo in un Paese in cui non c’è ancora una struttura di governo».
Quanti sono i cristiani in Libia?«Ufficialmente non ce ne sono: in realtà ne contiamo almeno 5 mila. Sono tutti stranieri, filippini, congolesi, ghanesi, nigeriani. La comunità cristiana è molto impegnata. Negli ospedali, dove ci sono tantissime donne filippine che prestano la loro opera, ma anche i nigeriani e i subsahariani in genere sono molto attivi».
Ma come si sostentano?«Buona parte di loro è tornata al vecchio impiego. Durante la guerra erano fuggiti, o si erano nascosti. Ora hanno ripreso servizio dove hanno potuto».
La guerra ha lasciato ferite profonde, il Paese non è affatto pacificato...«I libici hanno voglia di ricominciare. E soprattutto hanno voglia di vivere in pace. Per la Pasqua battezzeremo alcuni migranti subsahariani. Ma il dialogo con i musulmani è aperto, costantemente».Non con tutti, evidentemente. Gli integralisti hanno vandalizzato un cimitero cristiano in nome di Allah, gli stessi salafiti storcono il naso di fronte alla presenza cristiana in Libia.
Lei teme qualche minaccia?«Gheddafi ci lasciava vivere. Spero lo facciano anche i giovani rivoluzionari. Noi ci comportiamo con buona volontà, generosità, senza badare al colore o al partito. È ovvio che ci sono tante situazioni da sanare e molte tensioni fra le varie componenti tribali».
Cosa riuscite a fare per i bisognosi?«Molto e poco allo stesso tempo. Mendichiamo aiuti, fondi, ma la situazione è ancora statica, si fa fatica, tutto è molto lento e affidato alla generosità del singolo, della piccola organizzazione, dell’imprenditore volontario. Ma non sono pessimista. Piano piano si riuscirà a riconciliare gli estremi, ne sono sicuro».