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Dilma Roussef. «Torno in campo perché Lula sia presidente del mio Brasile»

Lucia Capuzzi, inviata a Lecce venerdì 27 gennaio 2017

Dilma Vana Rousseff Linhares è nata a Belo Horizonte il 14 dicembre del 1947. Politico ed economista e del Partito dei Lavoratori di Luiz Inácio Lula da Silva, è stata presidente del Brasile dal primo gennaio 2011 al 31 agosto 2016. Il suo incarico è durato per due mandati. Sospesa per “impeachment” dalle funzioni di governo il 12 maggio 2016, è stata destituita definitivamente con il voto del Senato del 31 agosto successivo. Nata in una famiglia borghese e ricevuta un’educazione universitaria, da giovanissima maturò posizioni politiche marxiste. Cominciò la sua militanza guerrigliera partecipando alla lotta armata contro la dittatura militare brasiliana (1964-1985). Trascorse quasi tre anni in prigione tra il 1970 e il 1972. Dopo il carcere ha ricostruito la sua vita nello Stato del Rio Grande del Sud, dove, insieme con Carlos Araújo, suo compagno per più di trent’anni, contribuì alla fondazione del Partito Democratico Laburista (Pdt) e partecipò attivamente a diverse campagne elettorali. Partecipò al gruppo di lavoro che stese il programma per il settore energetico della campagna elettorale di Luiz Inácio Lula da Silva alla presidenza della Repubblica nel 2002; Lula la nominò ministro della Casa Civil, una sorta di ministro dell’Interno con funzioni di sottosegretario alla presidenza del consiglio. Dopo la destituzione, da parte del Senato, da agosto ha ceduto i poteri al suo vice Michel Temer.

Dilma Rousseff è ringiovanita. Non ha più il viso tirato dei «mesi dell’impeachment». Quando, dopo quattro mesi di estenuante battaglia – da maggio ad agosto – e una drammatica votazione del Congresso, l’ex presidente è stata, alla fine, rimossa dall’incarico. Un’esperienza dolorosa. Rousseff, però, sembra averla superata con la consueta grinta. «Sono stata sconfitta – afferma –. Ho perso la mia battaglia in Congresso. È necessario avere consapevolezza della realtà per cambiarla. Interiormente, però, non mi hanno sconfitto».

Una frase tipica di «Dilma la guerrigliera», come la chiamano per il suo passato di attivista anti-dittatura. Anche se – precisa – non ha mai partecipato ad azioni armate. Lo spirito combattente di quegli anni non è cambiato. A Lecce l’ex leader è arrivata dopo un tour in Spagna. Per niente stanca si è svegliata presto per visitare il centro storico. Poi, nel pomeriggio, in impeccabile tailleur nero, ha partecipato al seminario «La solitudine della democrazia», organizzato all’Università del Salento dal professor Raffaele De Giorgi, in occasione del venticinquesimo anniversario della pubblicazione di «Teoria della società», dello stesso De Giorgi e Niklas Luhmann. Un programma fitto. Eppure Rousseff ha accettato di «comprimere», come dice lei, il tempo del pranzo per parlare con Avvenire. Del resto, la prima donna capo di Stato del Brasile ha sempre riposato poco. Il suo segreto per tenersi in forma – dice – è la bicicletta. «Faccio lunghe escursioni quotidiane – racconta –. E, nel mentre, ascolto i dischi di João Bosco». Uno dei cantanti simbolo della lotta civile contro il regime militare che governò il Gigante del Sud tra il 1964 e il 1985. Insomma Rousseff non rinuncia alla politica nemmeno mentre fa ginnastica.

Per che cosa si batte ora Dilma Rousseff?

Farò il possibile e l’impossibile per difendere la democrazia dalla malattia terribile che rischia di farla ammalare. Ovvero la sua sostituzione con uno stato di emergenza permanente. Quello che sta facendo ora il nuovo governo brasiliano. Del resto, è l’unico modo per imporre, senza problemi, ricette ferocemente neoliberali. Attenzione. Non si tratta della dittatura classica, come quella che ho vissuto in passato. Quest’ultima riduceva al minimo i diritti per tutti. Ora, i vecchi regimi hanno mutato pelle. E applicano nuovi metodi.

A che cosa si riferisce?

Al sistema, per esempio, della «giustizia per il nemico». Un metodo ben sintetizzato da un procuratore a proposito del mio predecessore, Luiz Inacio Lula da Silva. «Non ho bisogno di prove contro di lui. Ho certezze», ha detto.

Lula si candiderà nel 2018?

Sarebbe il miglior candidato. Perché è un vero democratico. È, dunque, l’unico antidoto efficace al virus dello “stato d’eccezione”. Non permetterebbe a questa malattia di infettare il nostro sistema. E vuole sapere una cosa? Lula vincerebbe. A meno che non impieghino qualche stratagemma per fermarlo. Non possono farlo in modo democratico. Ci vorrebbe un secondo golpe. Il primo è stato quello nei miei confronti. L’altro consisterebbe in qualche misura istituzionale o giudiziaria ah hoc per metterlo fuori gioco.

Lei insiste sul fatto che nei suoi confronti c’è stato un “golpe”...

L’impeachment, in una repubblica presidenziale, è possibile in gravi circostanze. La Costituzione brasiliana lo prevede in caso di «crimine di responsabilità», cioè tradimento, corruzione, aggressione all’economia popolare. Non ho commesso alcuno di questi delitti. Contro di me c’è stato un giudizio politico.

Lei è stata accusata di aver ritoccato i conti pubblici...

Sono stata condannata per tre decreti che toccavano lo 0,01 per cento del bilancio. Al di là del fatto che la prassi è stata impiegata da tutti i miei predecessori, nessuno escluso, si tratterebbe di un’irregolarità amministrativa non di un crimine di responsabilità. Ecco perché parlo di golpe.

Perché l’avrebbero fatto?

Per due ragioni. Una, più immediata, l’hanno spiegata gli stessi artefici durante una conversazione intercettata e resa pubblica a maggio. Il mio allontanamento era necessario per «fermare l’emorragia», ovvero stoppare le indagini per corruzione in corso – nella fattispecie l’inchiesta Lava Jato – prima che arrivasse a colpire i veri responsabili. Alcuni gruppi politici – il Partito da social democracia brasileira (Psdb) e parte del Partido do movimento democratico brasileiro (Pmdb) (quello dell’attuale presidente Michel Temer, ndr) – avevano paura. La seconda ragione è di lungo periodo. Ovvero quella di fermare il processo in atto.

A che cosa si riferisce?

In America Latina e in Brasile in particolare – a differenza dell’Europa e degli Usa dove c’è stata una forte concentrazione della ricchezza – negli anni Duemila sono stati eletti governi popolari che sono riuscite a promuovere, al contempo, crescita e redistribuzione a favore dei gruppi sociali più deboli, storicamente esclusi. Non ci siamo, però, solo limitati a far uscire dalla miseria estrema 36 milioni di persone. Perché la fine della povertà è solo l’inizio della garanzia di piena cittadinanza. Abbiamo ampliato l’accesso ai diritti fondamentali: istruzione di qualità, salute, mobilità urbana. E costruito spazi di partecipazione per i nuovi soggetti emergenti, come i neri e le donne.

La redistribuzione è avvenuta in un contesto di crescita. Poi anche in Brasile è arrivata la crisi...

Il punto non è la crisi. Bensì il conflitto distributivo esistente in ogni società. Quando l’economia cresce, esso si attenua e viene gestito facilmente. In tempi di recessione, diventa pressante la domanda: chi deve pagare il conto della crisi? Dal 2014, la riduzione del prezzo internazionale delle materie prime, la svalutazione del dollaro e conseguente concorrenza delle esportazioni Usa, l’aumento del costo dell’energia hanno avuto un forte impatto sull’economia brasiliana. Come uscirne? I tagli alla spesa sociale, contrariamente a quello che si pensa e un certo oligopolio mediatico vuole farci credere, non sono l’unica strada. Avevo proposto una riforma fiscale che toccasse i grandi patrimoni. La rendita accumulata non il lavoro, attraverso la tassazione delle transizioni finanziarie. Il Brasile è l’unico Paese al mondo, insieme all’Estonia, che non mette tributi ai dividendi aziendali. Un’eredità del governo di Fernando Henrique Cardoso negli anni Novanta. E qui torna l’interrogativo: chi paga il conto? In Brasile diciamo: «Pagare l’anatra». Ecco perché durante il processo di impeachment nell’Avendida Paulista, la federazione degli industriali ha portato in corteo un’enorme anatra gialla. Era il loro modo per dire: non vogliamo essere noi a pagare il conto. Ora, il nuovo governo sta facendo pagare il conto ai lavoratori, alla classe media, ai gruppi sociali più deboli. I primi atti parlano chiari. L’esecutivo ha fatto una modifica della Costituzione per congelare le spese primarie – cioè gli investimenti pubblici in salute educazione, salute, assistenza sociale, ricerca – per i prossimi vent’anni. Così i poveri vengono semplicemente tolti dal bilancio dello Stato.