Asia. Indonesia, la sharia fa paura
Il Daesh ha attaccato Surabaya il 13 maggio (Ansa)
È caccia all’uomo in Indonesia per catturare tutti coloro coinvolti negli attacchi suicidi nelle chiese e di Surabaya e Sidoarjo del 13 e 14 maggio con 27 morti, tra cui 14 attentatori e i familiari trascinati a morire, inclusi dei bambini. Sono finora 41 gli arrestati e almeno quattro i sospetti uccisi durante le operazioni delle forze speciali della polizia. Una reazione resa possibile anche dalla nuova legge antiterrorismo approvata il 25 maggio, che consente azioni preventive contro i sospetti terroristi.
Il coinvolgimento negli attentati di interi nuclei familiari, e rivendicati dal Daesh che sta sempre più insinuandosi nell’arcipelago – ha scioccato il Paese e sollevato un ulteriore dibattito sul ruolo dell’islam, il cui dominio indiscusso è prioritario per gli estremisti che puntano alla piena applicazione della sharia (la legge islamica) in tutto l’arcipelago sull’esempio della provincia di Aceh, sull’isola occidentale di Sumatra dove dal 2014 anche il codice penale come prima quello civile, ha accolto in pieno la legge di ispirazione religiosa con risultati controversi per gli stessi musulmani.
Tra le varie applicazioni, quella nota come “khalwat” (separazione), che impedisce anche a adulti che non siano sposati o in rapporti di consanguineità di restare insieme da soli se non in luogo aperto alla vista. Ad Aceh la pena è equivalente a 600 euro e alla fustigazione. Una pratica già di per sé discutibile ma che, sempre più, è sottoposta non al giudizio di un tribunale ma all’arbitro di bande che si arrogano il diritto di essere insieme custodi, giudici e esecutori.
Gruppi a volte anche di giovanissimi, che entrano all’improvviso in case private o in esercizi pubblici, chiedono i documenti a chi vi si trova, li giudicano e – se ritenuti colpevoli – li puniscono immediatamente, sulla strada o nella moschea più vicina. In almeno un caso recente, cospargendo i «criminali» di liquami e riprendendoli con gli smartphone per diffondere i videoclip su YouTube. Una tendenza in crescita e che inquieta, al punto che Kamal Fasya, docente di Antropologia dell’Università Malikussaleh di Aceh l’ha definita «simile a un’infezione contagiosa».
Una cronaca che emerge sempre più sui sociale media, con quattro casi a marzo nella sola capitale Banda Aceh, che include coppie non sposate, studenti sospettati di omosessualità, transessuali accusati di prostituzione, cittadini screditati per avere indossato abiti non ammessi o essersi atteggiati in modo «indecente » in pubblico. Una situazione che va sempre più entrando in rotta di collisione non soltanto con la sostanziale laicità dello Stato indonesiano, ma anche con l’autonomia di Aceh e la giurisprudenza islamica. La punizione pubblica lo scorso anno per due omosessuali, con migliaia di spettatori e accompagnata dai sermoni di leader islamici, ha provocato dissenso nella stessa provincia e sollevato preoccupazione e contrarietà nel Paese e all’estero.
Da ricordare che lo stesso governatore della provincia, la signora Illiza Sa’aduddin Djamal, ha chiesto nel 2016 alla comunità gay e lesbica di andarsene in un breve testo postato su Instagram, accompagnato da una foto in cui indossava un hijab rosso e brandiva minacciosamente una pistola. A lei si deve anche la linea telefonica diretta con cui ogni cittadino può denunciare violazioni alla morale islamica.
A questo proposito, le minoranze religiose hanno già segnalato il timore che proprio un’applicazione sempre più restrittiva della sharia esponga a rischi maggiori i non musulmani, con un incremento discriminatorio della “legge antiblasfemia”. Le autorità minimizzano, soprattutto nella capitale Giacarta, ma gli attivisti per i diritti umani e civili sottolineano invece non solo – come fa il responsabile locale di Human Rights Watch, Andreas Harsono – che Aceh sta diventando uno «Stato dominato dalla giustizia fai da te», ma che il rigore islamista troppo spesso ignora chi, per influenza o ricchezza, è sopra la legge.