Testimoni. Missioni Don Bosco: «In India il nostro lavoro con i Dalit»
Don Antunez in visita a un progetto educativo per i bambini più bisognosi in India
Di ritorno dall’India, il sacerdote salesiano don Daniel Antunez, presidente delle Missioni Don Bosco, ha incontrato l'8 ottobre a Torino un folto gruppo di donatori dei progetti che l'organismo sostiene in tre importanti città del subcontinente.
Un viaggio di dieci giorni per vedere l’India che i media non raccontano?
Sì, siamo stati nella capitale federale New Delhi, a Kolkata (Calcutta) e a Chennay (Madras). Noi abbiamo seguito la pista dei poveri, ai quali i salesiani danno attenzione prioritaria. Non ho la pretesa di aver capito come sia fatta la trama sociale, economica, culturale di questo subcontinente. Certo ho visto i centro città curati e vivaci, ma anche la terribile situazione di chi soffre la miseria allo stadio più acuto. L'ospitalità dei nostri missionari e di tutta la loro gente mi ha fatto sentire in molti momenti l'abbraccio e la tenerezza di Dio.
È ancora una terra di missione, l’India?
Qui la caratteristica dei figli di Don Bosco è che nella loro totalità sono nati e cresciuti in questo Paese. Il loro numero è salito in maniera esponenziale, e ogni anno ai seminari arrivano 200 nuovi aspiranti. Non si fa proselitismo ma si testimonia il Vangelo con l’attenzione ai poveri. E questo viene fatto da “missionari” che conoscono bene la cultura e la stratificazione sociale della popolazione. Posso dire con certezza che sono pane per gli affamati, acqua per gli assetati, casa per i senzatetto... Tutto questo, ma soprattutto sono un vero segno di speranza.
Dall’Italia con Missioni Don Bosco continuate a dare sostegno ai progetti.
Sì, sono aiuti destinati ad affrontare le emergenze o ad affrontare sfide nuove. Durante la pandemia da Covid 19 il nostro rapporto costante con i confratelli in India ci ha consentito di avere un quadro dei bisogni: abbiamo sostenuto programmi alimentari per la gente che, non potendo spostarsi per svolgere i lavori sia pur umili e precari nelle città, non sapeva come approvvigionarsi del cibo. Abbiamo aiutato i migranti interni per i lavori agricoli stagionali a rientrare nei luoghi di provenienza quando i trasporti pubblici si sono fermati, offrendo intanto la garanzia dei pasti e dell’assistenza sanitaria.
Oggi siamo impegnati in un progetto che riguarda i Dalit, la fascia di popolazione dedita ai lavori impuri, come la concia delle pelli o il trattamento dei materiali da discarica. Vogliamo che abbiano accesso all’istruzione e, attraverso questa, a una possibilità di riscatto sociale, ad esempio mediante l’accesso ai concorsi pubblici, riservati di fatto alle caste superiori. E poi ci sono gli interventi negli slum dove i salesiani hanno portato fonti d’acqua per l’alimentazione e per la pulizia personale: piccole isole di igiene fra i canali d’acqua inquinata e le discariche, intorno e sopra le quali crescono gli agglomerati dei più poveri fra i poveri. A questo proposito, i salesiani sono riusciti a dare inizio alla creazione di piccole piattaforme di cemento per consentire di appoggiare le capanne su al riparo dai flussi delle acque nere e dalle piene fluviali.
I governi dei diversi Stati indiani vi lasciano sviluppare queste opere?
Progettazione e realizzazione dei nostri interventi sono concordati con le autorità locali: nulla viene fatto senza autorizzazioni, la cooperazione è necessaria. I servizi medici a Calcutta, ad esempio, si integrano con le iniziative della sanità pubblica. Una nostra unità mobile con medici e infermieri fornisce prevenzione e cura alle comunità più lontane da presìdi e ospedali in aree dove nessun altro mette piede.
E l’evangelizzazione?
La percezione dell’amore di Dio passa attraverso questi innumerevoli gesti di umanità solidale. Cresce il numero delle persone che frequentano le nostre celebrazioni, anche se devono evitare di essere classificate al di fuori del sistema sociale hindu. Bambini e adulti frequentano gli incontri di catechesi. E maturano vocazioni.