Intervista. Giro: «In Libia diplomazia, non truppe»
«Le polemiche su un presunto intervento militare italiano creano solo un polverone sterile... In Libia c’è un accordo fra fazioni che ha favorito la nascita di un governo. Un processo politico travagliato, ma che procede. L’apporto italiano a quel processo è stato, ed è, politico e diplomatico, non militare. Un 'modello' che si potrebbe applicare anche in Siria...». Per anni in prima linea nelle crisi internazionali come mediatore della Comunità di Sant’Egidio, il viceministro degli Esteri Mario Giro conosce a fondo le dinamiche relative ai conflitti. E, nel colloquio con Avvenire, respinge al mittente gli attacchi politici su un 'interventismo' armato del governo in Libia all’insaputa del Parlamento.
Viceministro, le opposizioni continuano a invitare il governo a recarsi alle Camere per chiarire… Sulla questione, ripeto, si sta facendo solo un polverone. Non ci sono truppe italiane operative in Libia, come ha detto il ministro Gentiloni. C’è solo una serie di azioni di assistenza, di cui abbiamo più volte parlato.
Nell’assistenza rientrano anche gli sminamenti a Misurata, in zone lontane dai combattimenti, di cui lei accennava l’altro ieri? E cosa può dirci della presenza di personale dell’intelligence? Sulle questioni di intelligence, è opportuna la riservatezza.
Il governo ha informato il Copasir di tali attività in Libia, quali che siano? Anche in tal caso, e come per tutte le questioni che riguardano il Copasir, è d’obbligo non commentare. Voglio però puntualizzare una cosa...
Quale? Se in Libia oggi c’è un governo come quello di Al Serraj, lo si deve all’approccio dell’Italia, che ha sempre cre- duto, anche quando non ci credeva nessuno, che potesse esistere una soluzione non militare alla crisi libica. Noi abbiamo pazientemente spinto per l’accordo di Skhirat, per la definizione del Consiglio di presidenza e la nomina di un premier e perché potesse insediare un governo unitario a Tripoli. Di questo 'modello italiano' dobbiamo andare orgogliosi.
Al Serraj lamenta che il parlamento di Tobruk non abbia ancora ratificato il suo esecutivo. Una impasse che dura da troppi mesi, non crede? Sì. E dobbiamo lavorarci molto: la maggioranza dei deputati di Tobruk è a favore, il problema è che non convocano la seduta. Ci sono poi altri nodi: il principale è l’opposizione del generale Khalifa Haftar. Sono in corso negoziati e confidiamo che la soluzione possa arrivare da un accordo fra libici. Comunque non servirebbe imporla dall’esterno: il ruolo dell’Italia e della comunità internazionale dev’essere quello di un accompagnamento.
La riapertura dell’ambasciata italiana a Tripoli è un ulteriore passo in quel senso? L’intento, con la nomina dell’ambasciatore Giuseppe Perrone, a cui faccio i miei auguri, è proprio di avere sul posto un riferimento diplomatico permanente, per seguire da vicino i processi in atto.
Riconquistata Sirte, prevede che la strada per 'bonificare' la Libia dal Daesh sia in discesa? Quali sono gli altri focolai? Le milizie del Daesh si erano concentrate a Sirte. Ma ci sono altri gruppi a sud, come Al Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi), che vanno contrastati.
In filmati del Daesh compaiono fotogrammi del presidente Mattarella, del premier Renzi, del ministro Gentiloni, con l’accusa di sostegno ad Al Serraj. L’impegno in Libia mette l’Italia ancor più nel mirino dei jihadisti? La sfida dei terroristi è rivolta a tutti i Paesi che lo contrastano, anche arabi. Da parte dell’Italia, l’attenzione è massima rispetto a qualsiasi tipo di allarme. Ma la nostra politica è sempre rispettosa delle istanze locali. È una politica che io definisco d’influenza e non d’ingerenza.
Sul piano umanitario, l’Italia ha risposto all’appello di Al Serraj fornendo assistenza a diversi feriti. Cos’altro sta facendo il governo? Abbiamo destinato 2 milioni di euro in azioni umanitarie e disposto un pacchetto d’interventi per 1 milione e mezzo per la prima emergenza, attraverso Croce rossa internazionale e Acnur. Un altro milione di euro lo abbiamo stanziato per alimenti, medicinali e kit sanitari in vari ospedali civili di almeno 5 città, come Bengasi e Tripoli, e anche nel Sud, dove non arriva nessuno.
Dalle coste libiche continuano a partire migliaia di migranti. Il loro dramma rende ancora più urgente stabilizzare il Paese... Sì, è vitale per normalizzare i flussi migratori. Mentre per i migranti che sono già in Italia, le logiche di tipo emergenziale non bastano: occorre immaginare un 'piano di integrazione' per chi rimane.
L’altro grande 'buco nero' che agita Mediterraneo e Medio Oriente è la crisi siriana. È un conflitto totalmente fuori controllo. Ci sono situazioni tremende, ad Aleppo e in altre città. Finché non ci sarà una tregua stabile, non sarà possibile rafforzare i corridoi umanitari. Anche lì, come si è fatto in Libia, servirebbe un accordo fra le parti in lotta. E confido che l’incontro fra Putin ed Erdogan possa contribuire a sbloccare la situazione.