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Betlemme. La guerra arriva nella valle degli uliveti. «Non possiamo coltivare le terre»

Lucia Capuzzi, inviata a Betlemme venerdì 3 novembre 2023

Da sinistra, Khalil e Carlos sono dovuti andare a raccogliere le olive nella terra di un vicino a Beit Jala perché, dal 7 ottobre, l’accesso al loro campo a al-Makhrour è stato chiuso dall’esercito israeliano

l cartello marrone indica di proseguire diritto. Al-Makhrour è proprio là, dall’altra parte della strada. Distante pochi passi eppure irraggiungibile. Una trincea di filo spinato e sbarre di ferro chiude l’accesso alla valle di 2,6 chilometri quadrati su cui crescono gli ulivi più pregiati della Cisgiordania. L’olio ricavato dal loro frutto si vende all’equivalente di 16 euro al litro, più del doppio di quello prodotto nella zona di Nablus o Ramallah. Dalle olive di al-Makhrour, dunque, dipende almeno il 10 per cento del bilancio annuale degli agricoltori del distretto di Betlemme. Specie ora che la produttività della valle è aumentata grazie all’azione di formazione dei contadini e realizzazione di infrastrutture di Caritas Gerusalemme che, negli ultimi cinque anni, ha riqualificato duecento appezzamenti. «Al-Makhrour, poi, coltiviamo anche ortaggi e frutta. Anzi, coltivavamo. Ormai sarà tutto secco. Non è solo per i soldi. Anche se, con il turismo fermo, non so come manterrò la mia famiglia. Quegli ulivi sono parte di noi», racconta Khalil che non può andare a lavorare la sua terra dal 7 ottobre.

Anche l’olio di Betlemme, simbolo di vita per i popoli della regione, è prigioniero della guerra. La valle – come l’87 per cento del territorio del distretto – si trova nella cosiddetta “area C”, dunque sotto il controllo israeliano che, il giorno stesso del massacro, l’ha blindata ai palestinesi. Khalil, invece, anche se abita a qualche centinaio di metri di distanza, a Betlemme, risiede in “area A”, amministrata dall’Autorità nazionale palestinese (Anp). E non può uscire.

Il permesso che consentiva a lui e agli altri coltivatori del distretto l’acceso ai campi per alcune ore al giorno per la raccolta annuale – prevista tra metà ottobre e metà novembre – è stato congelato a tempo indeterminato. In base agli accordi di Oslo, la suddivisione dei Territori in categorie contrassegnate dalle prime tre lettere dell’alfabeto doveva essere la premessa per la costituzione di uno Stato palestinese e della pace con Israele. La loro mancata attuazione e, anzi, l’aumento esponenziale degli insediamenti di coloni ebrei – illegali per il diritto internazionale –, invece, hanno sbriciolato la Cisgiordania in una galassia di isole non comunicanti, esacerbando il conflitto.

Betlemme, con il suo muro medievale sormontato da telecamere high tech, è la sintesi visiva del paradosso. Tutti i punti di attraversamento per Gerusalemme dalla cittadina di 35mila abitanti sono stati sigillati. Insieme alle strade che passano per “l’area C”. Proteggere i coloni è una delle priorità del governo di Benjamin Netanyahu e, soprattutto, dei suoi alleati dell’ultradestra. Come l’attuale ministro della Sicurezza, Itamar Ben Gvir, che, all’indomani del 7 ottobre, ha distribuito gratuitamente 10mila fucili al popolo degli insediamenti della Cisgiordania.

Magari il proiettile che, due giorni fa, ha spappolato la gamba di Mohammed, un raccoglitore di Nahalin, è partito da una di quelle armi. «I loro ulivi erano nell’area palestinese, dunque stavano facendo normalmente la raccolta. Poi, la settimana scorsa, i coloni di Betar Illit sono arrivati al campo e hanno iniziato a minacciarli», dice Khalil. I tafferugli si sono fatti quotidiani, fino al ferimento di Mohammed. «Ora, per continuare, hanno deciso di raccogliere tutti insieme, in gruppi di venti o trenta: prima terminano nel campo di uno, poi si spostano nell’altro. Certo, ci vuole molto più tempo ma che altro possono fare?». Sempre domenica, altri due coltivatori sono stati feriti a Khalayel al-Louz.

«Tutti gli anni ci sono problemi. Nel distretto di Betlemme, la terra è un nodo spinoso. Ai 202mila palestinesi ne è rimasto il 13 per cento. Il resto è occupato dai 162mila coloni, distribuiti in 23 insediamenti in una superficie oltre sei volte più grande», spiega Jad Isaac, direttore dell’Applied research institute-Jerusalem (Ari). Mai, però – aggiunge – la situazione era stata tanto incandescente come ora. Da gennaio a settembre, l’Ari ha registrato 82 aggressioni agli agricoltori in questa zona da parte degli abitanti degli insediamenti per un totale di 8mila piante distrutte. «Quando termineremo il censimento di ottobre, il numero aumenterà esponenzialmente».

Non è solo Betlemme, poi. L’intera Cisgiordania è un campo minato, come confermano i dati dell’ultimo studio dell’ufficio Onu per i diritti umani. In meno di tre settimane ci sono stati 167 attacchi dei coloni che hanno fatto schizzare la media quotidiana di tre al giorno, calcolata nel 2022, a oltre sette.

Lo scontro più grave si è verificato sabato scorso a Sawiya, vicino a Nablus, dove Bilal Saleh, 40 anni, è stato aggredito da un gruppo di coloni di Eli mentre raccoglieva le olive con la moglie e i quattro figli. A un certo punto, è partito un colpo di arma da fuoco che l’ha gravemente ferito: Saleh è morto prima dell’arrivo in ospedale. Per l’attacco è stato arrestato un soldato.

Il giorno prima, a poca distanza, nel villaggio di Deir Istiya, gli agricoltori, al ritorno dagli uliveti, avevano trovato sulle auto volantini che minacciavano una “nuova Naqba”, l’esodo forzato di 700mila palestinesi dalle terre in cui abitavano in seguito alla partizione del 1948. «Ad al-Makhrur c’è un solo colono ma crea problemi per cento. Fa di tutto per impedirci di lavorare: distrugge tutto quel che facciamo. Denunciare? A chi? Ma se è amico dei soldati. Sarà contento che ci hanno chiusi dentro», dice Issa.

Per non perdere totalmente la stagione, insieme ai cugini Khalil e Carlos, da dieci giorni raccoglie le olive di un vicino a Beit Jala. «Ci ha promesso di darci la metà del raccolto. Certo lo dovremo dividere in tre, ma almeno è qualcosa – aggiunge –. Noi ci possiamo arrangiare, ma i campi no. Senza cure, tutto il raccolto sarà morto».

Issa ha già perso una terra. «Avevo trenta ulivi a Berauna. Nel 2015 mi hanno requisito la terra per fare posto al muro e li hanno tagliati tutti. Volevano darmi un indennizzo ma non l’ho accettato. Come posso accettare la distruzione dei miei alberi per costruire una barriera con cui ingabbiarmi? Almeno, però, un ulivo è stato risparmiato e ora sta là, dall’altra parte del muro, come se mi aspettasse. Quando aprono l’accesso, in genere all’inizio di novembre, mi fermo a guardarlo. Stavolta, nemmeno questo mi sarà concesso».