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Repubblica Centrafricana. Il vescovo salva 2mila musulmani: tutti in chiesa con lui

Lucia Capuzzi mercoledì 31 maggio 2017

Sfollati in fuga dalle ultime violenze sono alloggiato nel campo di Bria

«Ci sono 800 uomini armati qui fuori. Da un momento all’altro possono fare irruzione nella Cattedrale e nel seminario. Non so quanto a lungo potremo proteggere i 2mila profughi che vi sono alloggiati. Il governo ci aiuti. E se quest’ultimo non ha le risorse, facciamo appello alla comunità internazionale e alle organizzazioni umanitarie. Non lasciateci soli. Non voltatevi dall’altra parte». La voce di monsignor Juan José Aguirre Muñoz è tesa. Come la situazione che vive ormai da più di due settimane. Il 13 maggio – «il giorno della Madonna di Fatima, per questo non posso dimenticarlo» –, Tokoyo, il quartiere islamico di Bangassou, nel sud-est della Repubblica Centrafricana, è stato attaccato e distrutto dalle milizie anti-Balaka.

«Questi ultimi erano originariamente gruppi di autodifesa, nati per rispondere alle violenze delle bande islamiste Seleka, arrivate nel Paese dal Ciad e dal Sudan nel 2013. Ben presto, però, gli anti-Balaka sono diventate formazioni criminali. Non fanno differenza tra Seleka e civili musulmani, come la gente di Tokoyo: sono dei pacifici commercianti, non dei fondamentalisti», racconta ad Avvenire il vescovo e missionario comboniano, da oltre 35 anni in Centrafrica e alla guida della diocesi di Bangassou da 17. Gli abitanti della zona si sono rifugiati nella moschea, immediatamente presa d’assalto dai miliziani. Là, sulla linea del fronte, si è recato in tutta fretta, anche monsignor Aguirre, nonostante i tre infarti avuti e i problemi cardiaci.

«Per tre giorni, i civili sono rimasti là dentro, senza cibo né acqua. Se provavano ad uscire, li sparavano come conigli. C’erano francotiratori ovunque. Quando sono arrivato, insieme a due sacerdoti e il cardinale Dieudonné Nzapalainga, ho visto cadaveri ovunque. Abbiamo fatto da scudi umani agli islamici: sentivo le pallottole fischiarmi intorno ma non mi hanno colpito. Alla fine, sono arrivati i caschi blu portoghesi della Minusca (missione Onu in Centrafrica, ndr) e hanno fatto uscire gli ostaggi. L’emergenza, però, non è finita». Già, perché le case dei musulmani erano state razziate e date alle fiamme. «Ritornare là sarebbero stato, inoltre, troppo pericoloso », prosegue monsignor Aguirre. Quest’ultimo, dunque, ha scelto di aprire, nel senso letterale, le porte della parrocchia. I duemila sfollati sono stati alloggiati nel seminario minore, nella chiesa, alcune decine di persone dormono nella casa del vescovo. «Abbiamo dovuto decidere in cinque minuti. Non eravamo preparati per ospitare un simile flusso di persone. Ma che altro potevamo fare? Ciò che mi preoccupa di più, però, è l’incolumità di queste persone. Non abbiamo nemmeno le inferriate alle finestre, come possiamo difenderli?».

Gli anti-Balaka non sono disposti a “mollare la presa”. Gruppetti armati minacciano la parrocchia. «Subiamo continue aggressioni verbali. Uno dei sacerdoti è stato picchiato, hanno danneggiato le nostre auto. Domenica, poco lontano dalla parrocchia, hanno massacrato una donna musulmana con i suoi cinque bimbi. Anche molti abitanti sono arrabbiati perché abbiamo dato asilo agli islamici. Ci insultano, ci considerano “traditori”. E dire che, fino al 2013, la convivenza fra le due comunità era pacifica e armoniosa». In Repubblica Centrafricana, gli islamici sono minoranza: circa il 10 per cento della popolazione. Una collettività, però, ben integrata. Almeno fino all’ultimo conflitto civile. A “spezzare” il tessuto sociale è stata l’entrata in gioco degli islamisti della Seleka.

«Si tratta di gruppi venuti e finanziati da Paesi vicini che hanno interesse a destabilizzare il Centrafrica», sottolinea il vescovo. La loro ferocia ha provocato un forte risentimento nella popolazione cristiana, spianando la strada alla formazione di milizie anti-islamiche. La situazione sembrava rientrata all’inizio del 2016, con l’elezione del presidente Faustin-Archange Touadéra. Poi, negli ultimi mesi, la tensione si è riaccesa. A Bangassou la questione si è ulteriormente complicata per l’emergere di istanze autonomiste locali, manipolate da gruppi di potere. «La lotta è politica non certo di fede», conclude monsignor Aguirre, impegnato nel dialogo interreligioso con la Fondazione Bangassou, da lui creata. «Ci vorrà, però, tempo per ricucire le ferite. Per questo, nel breve periodo, per far fronte quest’emergenza, abbiamo necessità dell’aiuto del mondo».