Decine di cadaveri, centinaia di feriti, tanto che il principale ospedale di Baghdad è stato costretto a chiudere le porte del pronto soccorso: «Perché non più in grado di ricevere altre vittime degli attentati», riferiva nella sua cronaca un giornalista iracheno della televisione al-Arabiya. Una cifra assurda – almeno 95 morti, oltre cento per altre fonti, e più di 550 feriti – di un bilancio provvisorio che, probabilmente, non avrà mai una certezza, per via che molti corpi sono stati dilaniati, resi irriconoscibili. Numeri pesanti, ma che sono destinati a salire perché sono «tanti i feriti in condizioni disperate ». Nessuna sorpresa per gli iracheni, «qualche giorno di tregua e poi la violenza, la strategia del terrore, torna a colpire», commentano a Baghdad. Con una sinistra coincidenza con la vigilia del voto afghano. È l’anticamera di sangue – evidenziano gli analisti – di una strategia che accompagnerà la vita dell’Iraq fino alle prossime elezioni politiche del gennaio 2010. Ma anche l’ulteriore dimostrazione di una ancora lontana immagine di un Paese sulla via della normalizzazione sei anni dopo la guerra di George W. Bush. Quella di ieri è una giornata da dimenticare, se non fosse per l’ennesimo, ma più grave fra tutti, carnaio di vittime provocato da due pesanti attentati che hanno aggiornato al rialzo i bollettini del bagno di sangue in cui da anni è immerso il Paese. Un doppio attacco seguito da colpi di mortaio, contro obiettivi governativi, importanti, quindi che si suppone dovevano essere superprotetti da posti di controllo, ma che, invece, si sono dimostrati facilmente raggiungibili da due camion bomba. Tanto da far sorgere più di un sospetto in qualche complicità tra settori della sicurezza e chi ha progettato i nuovi attacchi. I due ministeri, quello delle Finanze e degli Esteri, sono dislocati nel centro residenziale della capitale irachena, proprio a ridosso della «zona verde». Quella vasta area, al di là del fiume Tigri, che un tempo e- ra la residenza presidenziale di Saddam Hussein, oggi circondata e protetta da alte mura di cemento armato anti-bomba, dove hanno sede il governo iracheno, come quasi tutte le rappresentanze diplomatiche straniere. Dunque la parte più blindata di Baghdad, dentro alla quale, dal 30 giugno scorso, anche il comando americano in Iraq ha fatto convergere le proprie truppe, dopo avere riconsegnato il Paese e la sua sicurezza al legittimo governo. Mancavano 15 minuti alle 11, quando una potente esplosione ha investito il ministero delle Finanze, tanto potente da provocare il crollo di un lungo tratto di un viadotto che costeggia l’edificio. Molte delle vittime viaggiavano a bordo di auto cadute nel vuoto, mentre altre sono state investite da schegge e crolli all’interno del ministero. Pochi minuti dopo è esploso il secondo camion riempito di esplosivo, davanti al ministero degli Esteri. Il palazzo è stato investito in pieno dall’esplosione. La maggior parte delle vittime sono dipendenti ministeriali. Dall’inizio dell’anno, in Iraq c’è stata una recrudescenza della violenza stragista. E quello di ieri è considerata la giornata di sangue più grave, da quando il 24 giugno 62 persone rimasero uccise nel sobborgo sciita di Sadr city, alle porte della capitale. Secondo il portavoce del comando delle operazioni di sicurezza a Baghdad, generale Qassim Atta, la responsabilità degli attacchi è da attribuirsi al sodalizio tra al-Qaeda e nostalgici del partito Baath, del regime di Saddam Hussein. Una scia di sangue di cui il governo iracheno è consapevole, secondo quanto più volte ha affermato il premier Nouri al Maliki, il quale prevede una impennata degli attacchi proprio in vista delle delicate elezioni di gennaio e che ora parla di una «revisione » degli standard di sicurezza. Un appuntamento elettorale considerato essenziale per una svolta decisiva, che sia in grado di superare le divisioni tra sciiti e sunniti, la violenza settaria, la corruzione, ma soprattutto i veleni tra passato e futuro.