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Reportage. Miraggio Usa: l'odissea dei piccoli latinos

Elena Molinari domenica 29 giugno 2014
Una ragazzina incinta – non avrà più di 14 anni – siede per terra, le gambe divaricate e la schiena appoggiata alla rete a maglie. Si tiene la pancia con le mani, mentre guarda una delle tv che lampeggiano mute dalle travi di metallo del soffitto. Ai suoi piedi sono ammassate una quarantina di bambine, sdraiate una accanto all’altra su materassini di plastica verdi buttati per terra. Fissano i muri di cinta o le televisioni, e nei loro occhi c’è noia, stanchezza, o rassegnazione. Sanno che non possono parlare ai visitatori, e non ci provano nemmeno. Solo i più piccoli rispondono timidamente ai sorrisi. Questo magazzino di cemento grande quanto un campo da calcio si chiama “Centro di smistamento immigrati di Nogales” ed è diviso in una dozzina di gabbie etichettate con la descrizione del loro contenuto: «Maschi sotto i 12 anni», «femmine dai 12 ai 15 anni»… Alcuni di questi maschi o femmine hanno ancora addosso i vestiti coperti dal fango del Rio Grande o dalla sabbia del deserto di Sonora. Una fila di latrine portatili e un tendone di plastica blu isolano un gruppo dagli altri: sono gli immigrati con la scabbia.In tutto, i minori latinoamericani ammassati per terra o sulle panche di metallo sono un migliaio. L’aria condizionata che ronza da cinque gigantesche bocche d’acciaio puzza di piedi, di urina e di sudore. I 40 gradi di fine giugno in Arizona, però, rimangono fuori dai finestroni sprangati. I pavimenti sono puliti. I ragazzini ricevono cure mediche, tre pasti al giorno e una coperta. Qua è là si vede qualche frisbee, delle palle, un peluche. Ma sono comunque bambini soli. Bambini in gabbia. Che, essendo in un centro di detenzione, non possono avere lacci alle scarpe o uscire in cortile più di tre volte alla settimana.Eppure, assicurano gli agenti della Border Patrol, le guardie di frontiera americane che si aggirano fra i recinti in tuta mimetica, la maggior parte è contenta di essere qui. Sono arrivati al confine meridionale dell’Arizona o del Texas dopo almeno tre, quattro settimane di cammino attraverso il centro America e il Messico. Raccontano di essere saliti sul tetto della “bestia”, il treno che attraversa il Messico da Sud a Nord, di aver dormito per strada, di aver camminato per ore nel deserto e di essere stati assaltati dalla «mafia», come la chiamano: narcotrafficanti e bande di delinquenti comuni che sanno che questi piccoli disperati hanno addosso tutti i soldi che la loro famiglia è riuscita a racimolare prima di spedirli in un viaggio della speranza e dell’orrore. «Moltissimi raccontano di essere stati vittime di abusi – dice Manuel Padilla, capo del settore di Tucson della Border Patrol – violenza, stupri, rapine. Alcuni lungo il tragitto vengono rapiti e avviati alla prostituzione ». E poi ci sono quelli che le guardie trovano morti nel deserto: uno o due cadaveri al giorno, di tutte le età (sono stati 463 nel 2013 ma sono aumentati negli ultimi mesi).   «Non mandate i vostri figli verso il confine americano – si è appellato venerdì Barack Obama ai padri e alle madri di Honduras, El Salvador, Guatemala –. Potrebbero non farcela. In nessun modo dovete mandare   i vostri figli da soli. Non sappiamo quanti di loro riescono a sopravvivere ».   E chi sopravvive, ha aggiunto il presidente americano, accusato dai repubblicani di non fare abbastanza per fermare l’ondata di partenze, sarà mandato indietro. L’Amministrazione democratica ha parlato di braccialetti elettronici, di deportazione immediata. Ma al centro di smistamento di Nogales nessuno ci crede. Questi ragazzini, pur nello stupore post-traumatico in cui sono sprofondati, sono convinti di avercela fatta. Il loro premio sono quattro o cinque giorni in questi recinti da fiera del bestiame, seguiti da un viaggio a un altro centro in Texas, Oklahoma o California, dove i servizi sociali troveranno un parente negli Stati Uniti cui affidarli. Tutti riceveranno un ordine di presentarsi in tribunale per chiedere la revoca del provvedimento di espulsione che, se non si presentano, scatta automaticamente. «Molti in realtà hanno diritto di rimanere – spiega Isabel Garcia, responsabile dell’organizzazione non governativa Coalición de Derechos Humanos di Tucson – da un terzo al 40% possono essere definiti profughi di guerra, perché provengono da regioni devastate dalla violenza. Inoltre la domanda di asilo, che ferma il processo di espulsione, non viene mai decisa prima di due o tre anni, durante i quali i minori possono studiare e persino lavorare. Ma la tragedia è che molti non provano a chiedere l’asilo, perché hanno paura dei tribunali». E non possono permettersi di rischiare. Hanno pagato dai 5mila ai 7mila dollari allo sciacallo che li ha portati fin qui: non possono essere rispediti a casa. Allora cominciano una vita sotterranea. Gli adolescenti troveranno un lavoro a lavare piatti, scaricare casse nei magazzini di notte, pulire le stanze dei motel di periferia, pagati meno del salario minimo. Ma grazie a una serie di leggi che proteggono i minori, il rischio di essere deportati immediatamente, se scoperti, scatta solo al compimento del 18esimo anno. I più piccoli potranno andare a scuola e forse in futuro riusciranno ad approfittare di qualche sanatoria. Il loro futuro resta incerto e le cicatrici del viaggio sono profonde. Ma per loro il magazzino di Nogales è il primo passo verso la possibilità di una nuova vita.