Lettera. «Il senso di quello che faccio nella vita e un popolo che muore nel silenzio»
Caro direttore,
quello di cui ti vorrei parlare va molto oltre il semplice disagio e tocca il senso stesso di quello che faccio nella vita – e, credo, in qualche modo, di quello che tutti facciamo. La fortuna di non essere un giornalista mi permette di non parlare del coronavirus, con il quale dobbiamo convivere facendo quello che possiamo. Anche il governo fa quello che può, e questa potrebbe essere una buona notizia, a volerla guardare.
La cattiva notizia, quella veramente cattiva perché tocca, come ho detto, il senso di tutto quello che diciamo e facciamo, ci viene dai confini tra Turchia e Grecia e tra Turchia e Siria, e riguarda il destino di un intero popolo, che rischia – purtroppo non sarebbe la prima volta nella storia – di essere cancellato dalle carte geografiche se non dal mondo stesso.
Io sto qui, scrivo i miei romanzi, mi occupo di teatro, cerco insomma di dare qualcosa (meglio: qualcosina) ai miei simili, e devo farlo accettando di vivere in un’Europa imbelle, che non sa dire una parola vera, interessante, al cospetto di questa tragedia che, pure, la riguarda completamente. Sullo schermo tv passano le immagini di questi disperati che attraversano campi, boschi, e guadano fiumi mentre intorno si sentono scoppi di arma da fuoco che però tutti dicono di non usare. Poi vediamo la signora von der Leyen, dallo stile impeccabile, così europeo, così “bourgeois”, distribuire blande raccomandazioni, da professoressa vicina al Tfr. Sinceramente: non possiamo non sentirci in imbarazzo. È questo ciò che ci rimane del più ambizioso tra tutti i progetti culturali della storia umana, l’Europa? Un po’ di moderazione? Un po’ di buone maniere (quando ci sono)?
Mi pare che la sola idea di futuro rimasta in Occidente riguardi ormai la difesa dei grandi capitali. Se qualcuno deve andare alla malora, bene: ci vadano i poveri, perché le ricchezze non si devono toccare: finite quelle – e con l’amara consapevolezza – finirà tutto. Il guaio è che è già finito tutto, perché se non si riesce a sollevare la testa oltre quel livello, siamo già finiti, e tutte le nostre misure di sicurezza odorano di cadavere. Certo, tutto questo non deve impedirmi di fare il mio lavoro, e se la storia d’amore che sto scrivendo necessita di tre, quattro stesure, è giusto che lo faccia, come è giusto prendere l’antibiotico contro la bronchite anche se abbiamo un tumore o se la nostra casa è allagata. Questo vale per tutti. Al bravo insegnante una settimana di stop causa coronavirus può fare piacere, ma poi sente la necessità di tornare al lavoro, e le settimane successive gli pesano e gli dispiacciono.
Resta il fatto che il mio romanzo, la mia cattedra sono previsti da un sistema, da un ordine che non prevede più l’esistenza di decine di migliaia di siriani. Com’è possibile che nessuno si muova? Com’è possibile che l’Europa si lasci tenere in pugno da un tiranno? Il mondo è una metafora, ma è anche una metonimia: se l’esistenza di diecimila (ma diciamo pure mille, cento, uno...) non ha più senso, vuol dire che anche noi stiamo danzando sulla capocchia di uno spillo. Mi viene in mente a questo proposito un racconto di un autore oggi quasi dimenticato, l’armeno-californiano William Saroyan (1908-1981). Parla di uno scrittore squattrinato, che a san Francisco, in un qualunque giorno del 1933, va a farsi tagliare i capelli in una scuola per barbieri, dove il servizio è quasi gratis. Il ragazzo che si occupa dei suoi capelli ha tratti fisici inusuali e così, chiacchierando, lo scrittore viene a sapere che si chiama Theodore Badal e che è assiro: appartiene cioè a un popolo che ha dominato il mondo. Gli chiede quanti siano, oggi, gli assiri presenti sulla terra. Settantamila, risponde il ragazzo.
«Settantamila assiri nel mondo e gli arabi seguitano a sterminarci. Il mese scorso ne hanno uccisi altri settanta in una sommossa. C’era sul giornale. Quattro righe di notizia. Tra qualche anno saremo scomparsi dalla faccia della terra. (...) Cerchiamo di dimenticare l’Assiria. Mio padre legge ancora un giornale che viene da New York, ma è vecchio, e presto morirà». Il finale del racconto è pieno di una qualità di cui forse noi intellettuali oggi abbiamo un grande bisogno: l’ingenuità. «Non mi aspetto – conclude Saroyan – che la Paramount Picture tragga un film da questo racconto. Io penso ad altro: ai settantamila assiri, uno per uno, vivi, una grande razza (sic). Penso a Theodore Badal, lui stesso settantamila assiri e settanta milioni di assiri, l’Assiria lui stesso, e uomo, in una bottega di barbiere, a San Francisco, nel 1933, l’intera razza in lui». Rimpiango quell’ingenuità, e penso che mi renderebbe più simile al mio prossimo senza la preoccupazione del ruolo che occupo. Siamo diventati troppo intelligenti, troppo sospettosi, troppo occupati a trovare quello che c’è dietro il dietro del dietro delle cose. E in fondo preferiamo non pensare a quanto tutto questo faccia a sua volta sistema, potere, regime.
La tragedia della Siria fa parte di un’altra tragedia, più silenziosa e quotidiana, che ci riguarda tutti, istante per istante. È la tragedia di un non pensiero che ci obbliga a darci delle giustificazioni secondarie, dal cinismo di chi ha altro a cui pensare al fatalismo che ci fa dire «passerà anche questa» fino all’indignazione che può essere sincera solo se sta al di fuori di ogni ruolo. «Ormai solo un dio ci può salvare», diceva Heidegger. Di questa frase non riesco a capire “ormai”. Solo un dio, anzi un Dio ben presente nel tempo e nello spazio, ci può, mi può aiutare a vivere accettando di tenere insieme ciò che non sta insieme: da un lato la consapevolezza di una tragedia inestinguibile che si consuma in forme sempre diverse, e che chiamiamo Storia, e dall’altro la nostra personale impotenza, che sarebbe tanto più insopportabile quanto più è consapevole, se un Dio non ci fosse vicino, come scriveva Michelangelo: «Ma che poss’io, Signor, s’a me non vieni/ coll’usata, ineffabil cortesia?».
Un abbraccio forte a te, e buon lavoro d’Avvenire.