Il reportage. Le donne di Hebron, prigioniere due volte tra check point e soldati
Due donne in lacrime a Rafah, nel Sud della Striscia di Gaza
«A uscire ce l’ho fatta. Ora vediamo se riuscirò a rientrare». Per arrivare puntuale all’incontro di formazione alla Camera di Commercio di Hebron, Vivian è partita da casa con due ore d’anticipo.
Il suo quartiere, Tal Rumeida, dista meno di un chilometro dalla parte di città che gli Accordi di Oslo hanno assegnato all’Autorità nazionale palestinese (Anp), la cosiddetta H1, con una popolazione di 250mila persone. Nel mezzo, però, ci sono cinque check-point, aperti solo per i residenti. E, spesso, nemmeno. Un miglioramento, comunque, rispetto ai due mesi successivi al 7 ottobre quando la porzione sotto amministrazione militare israeliana – H2 dove si trova Tal Rumeida – è rimasta sigillata. Ai 35mila abitanti è stato imposto un coprifuoco di 22 ore al giorno – eliminato dopo una sfilza di ricorsi ai tribunali – per garantire la sicurezza dei circa 700 ebrei dei cinque insediamenti situati nel centro urbano e dei 7.500 della maxi-colonia di Kyriat Arba, la più antica della Cisgiordania, patria dell’attuale ministro ultrà Itamar Ben Gvir.
Oltre 7 mesi dopo il massacro di Hamas e l’inizio della guerra a Gaza, le chiusure continuano, seppure a macchia di leopardo. H2 è un reticolato di posti di blocco, ventuno sparsi tra le diverse zone. Impossibile sapere in anticipo se saranno aperti. Muoversi, dunque, è una scommessa costante. «All’inizio della settimana, d’un tratto, i soldati hanno sbarrato l’entrata a Tal Rumeida e decine di vicini sono rimasti fuori. Hanno dovuto farsi ospitare dai parenti per la notte. Spero che questo pomeriggio non accada lo stesso», racconta Vivian con la voce flebile come un sussurro.
Ha difficoltà a modulare il tono dopo avere perso quasi completamente l’udito vent’anni fa, nell’attacco del 25 febbraio 1994, quando un estremista israelo-statunitense ha aperto il fuoco contro i fedeli islamici in preghiera, uccidendone 29, 125 sono stati feriti. Come Vivian. «È stata dura all’inizio. Per anni nessuno mi ha fatto più lavorare. Poi, nel 2020, grazie ad ActionAid, ho ricevuto una formazione in sartoria e cucina. Ora faccio dolci nella cucina comunitaria creata dalla Ong a Tal Rumeida e confeziono abiti e accessori da vendere. Ma dal 7 ottobre è diventato sempre più difficile: nessuno ha soldi per comprare».
Anche l’economia della Cisgiordania è vittima della guerra. Le seicento barriere erette dall’esercito di Tel Aviv all’interno dei Territori ostruiscono il flusso di merci tra i tre motori economici, Ramallah, Nablus e Hebron. A questo si somma il congelamento dei permessi di lavoro per i 200mila palestinesi impiegati in Israele, i cui salari sono fondamentali per alimentare i consumi locali, ridotti, dunque, al minimo.
Nell’ultimo trimestre del 2023, il Pil cisgiordano è crollato del 30 per cento mentre l’inflazione è passata dall’1,7 al 5 per cento, la disoccupazione è cresciuta di undici punti, raggiungendo il 29 per cento. «A pagare il prezzo più alto della crisi sono le donne – spiega Riham Jafari, coordinatrice di ActionAid Palestina –: sono loro a dover mantenere le famiglie ora che mariti, padri e fratelli hanno perso il lavoro in Israele. Per gli uomini, inoltre, dover stare a casa, molte volte senza poter nemmeno uscire a causa delle restrizioni, è fonte di una fortissima frustrazione che, spesso, degenera in violenza. Abbiamo registrato un aumento sensibile degli abusi domestici, già a quota 29 per cento».
«Mio marito faceva il muratore a Gerusalemme. Ora tutti dipendiamo da loro», racconta Zahira mentre indica il recinto del cortile dove riposano tredici pecore. «Quando ho cominciato il progetto di ActionAid, nel giugno 2022, ne avevo tre. Adesso che ho tanto latte, formaggio, yogurt da vendere la gente risparmia perfino sugli alimenti». A poca distanza dalla casa, c‘è la Grotta di Macpelà o Tomba dei Patriarchi dove, secondo il racconto biblico, sono sepolti Abramo, Isacco e Giacobbe, luogo sacro per ebrei, islamici e cristiani. Il complesso di pietra beige si intravede appena dietro la coltre di filo spinato e recinzioni che la circondano. Arrampicato sulla torretta di guardia, un giovane militare fa cenno di allontanarsi dalla sbarra gialla che segna la strada off limits, dal 7 ottobre, per i palestinesi. «Già prima era difficile entrare a pregare. Ora è impossibile», dice Meisun, mostrando con orgoglio le marmellate e i succhi di uva che ha imparato a produrre grazie a corsi realizzati al centro comunitario del municipio e sostenuti da ActionAid. «Per la prima volta avevo raggiunto l’indipendenza economica. Poi è arrivata la guerra...».
Il centro ha deciso di restare aperto. «È uno dei pochi spazi per le donne fuori dalle mura domestiche. È importante, specie ora – sottolinea Shifa, la coordinatrice –. Spesso, però, dobbiamo annullare le attività perché le iscritte non riescono ad arrivare. O perché i figli sono a casa: a Hebron, come in tutta la Cisgiordania, quasi tutte le scuole hanno trasferito le lezioni online». «Con i militari ovunque, la gente ha paura. Facevo ripetizioni di matematica: su 25 allievi ne sono rimasti quattro – afferma Isra –. Il guadagno è minimo ma vado avanti. La guerra finisce, l’istruzione resta».