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Israele. Ad Haifa l'ospedale con 600 pazienti si trasferisce nel bunker sotterraneo

Lucia Capuzzi, inviata a Haifa venerdì 27 settembre 2024

Militari collaborano al trasferimento delle culle termiche nel maxi reparto sotterraneo dell'ospedale Rambam di Haifa

L’urlo della partoriente sovrasta il brusio e rimbomba per lo sterminato reparto di duemila metri quadrati. «Ecco, appunto. Questo intendevo con il fatto che qui è un po’ “rumoroso”», sospira Michal Mekel, vicedirettrice del Rambam Health Care Campus di Haifa, il principale ospedale del nord di Israele nonché il riferimento nazionale per la traumatologia.

Da cinque giorni, però, lo storico complesso costruito durante il mandato britannico 76 anni fa nel quartiere Bat Galim e dedicato dagli israeliani al filosofo Maimonide, sembra insolitamente tranquillo. Le corsie “vecchie” e quelle nuove, all’interno del grattacielo adiacente, sono vuote. L’acuirsi della crisi ha costretto i seicento pazienti – e la gran parte del personale – a traslocare “sotto terra”.

È la prima esperienza al mondo di clinica-bunker di così vaste dimensioni. «Certo, è un orgoglio vedere che tutto stia funzionando bene. Siamo pronti dal 2014. Ma finora non l’avevamo mai testato in concreto», sottolinea la vice-direttrice. Quattro anni prima, sull’onda del trauma del conflitto del 2006 e delle bombe cadute sulla città incastonata tra il mare e il Monte Carmelo, le autorità avevano cominciato la costruzione di un doppio piano interrato al di sotto l’edificio. Fino a poco più di un anno fa, però, la struttura era all’apparenza un maxi-parcheggio sotterraneo. Custodite nei muri, tuttavia, si celavano le attrezzature – allacci per i servizi igienici, generatori elettrici, sistemi di aerazione nonché gli equipaggiamenti medici – indispensabili per trasformarla in ospedale nel giro di 72 ore. Il caso di necessità idoneo ad attivare la procedura si è presentato all’indomani del 7 ottobre con l’aumento della tensione lungo il confine con il Libano e i ripetuti scambi di fuoco con Hezbollah.

Tutto era stato predisposto 11 mesi fa nei tre giorni previsti. Mancavano solo i malati. Arrivati, insieme all’ordine del ministero della Sanità, domenica. La cosiddetta “fase due” – il trasporto – è stata portata a termine nel tempo record di otto ore. Quel giorno, dopo 18 anni di “tregua”, Haifa è tornata a sentirsi vulnerabile. Vari razzi hanno colpito la periferia settentrionale danneggiando edifici e auto: una 76enne è stata ferita.

Ieri, nel primo pomeriggio, le sirene di allarme sono suonate di nuovo e sulla zona compresa tra la città e Acri sono piovute decine di missili, in maggioranza intercettati. Si tratta di una parte degli oltre 150 che la milizia filo-iraniana ha scagliato su Israele nelle ultime ventiquattro ore. Un segnale di evidente escalation. Non è, però, ancora il ritmo di una bomba ogni quattro minuti che fonti militari associano all’offensiva su vasta scala più volte evocata dal premier Benjamin Netanyahu, nonostante le condanne e gli appelli internazionali, Stati Uniti in primis.

Ma la situazione rischia di precipitare da un momento all’altro. «Questo ci preoccupa. Speriamo di poter tornare presto “di sopra”. La struttura è ideale per un periodo limitato. Non ci sono le stesse condizioni dei reparti “regolari”», sottolinea la vicedirettrice mentre indica il pavimento sul quale sono disegnate centinaia di strisce blu: una per ogni parcheggio disponibile. Difficile orientarsi nel labirinto di tende bianche che separano i letti, in mancanza di stanze. Dietro le cortine, la luce fredda dei neon fa risaltare le ombre sfuggenti dei ricoverati. Impossibile tenere al riparo dagli sguardi altrui i quattro o cinque decessi quotidiani che, in media, si verificano da sempre nell’ospedale. Dal soffitto pende un enorme serpente di stoffa, all’interno del quale scorre il condotto dell’aria condizionata, che si fa meno forte all’approssimarsi della terapia intensiva.

«I malati sono vicini. Questo favorisce la diffusione di infezioni – dice la dottoressa Mekel –: un pericolo che aumenta con il trascorrere del tempo... ». E con l’incremento del flusso. «Qui si presentano persone di tutto il nord – spiega David Ratner, portavoce dell’ospedale Rambam –. Abbiamo accolto anche 120 pazienti di due cliniche cittadine prive di rifugi. Contiamo su un totale di 2mila letti, dunque oltre due terzi sono ancora liberi. Ci auguriamo, però, di non doverli riempire con feriti di guerra».

Per ora, questi ultimi sono una minoranza. Il grosso delle persone è là in seguito ad altre calamità, dai tumori al diabete ai problemi respiratori. La parte più affollata è la maternità. «C’è stato un baby-boom. Da domenica sono nati già cinquanta bimbi. L’ultimo due ore fa: abbiamo dovuto praticare un cesareo. E un altro sta per venire al mondo», sorride Nirit mentre indica con un dito l’orecchio destro. Le grida acute si fanno più ravvicinate confermando l’imminenza del parto. «Molte puerpere, soprattutto residenti nei kibbutz del nord, hanno deciso di rivolgersi a noi per questioni di sicurezza. I continui attacchi di Hezbollah le hanno rese molto ansiose. Altre, invece, sono spaventate all’idea di avere il proprio figlio “sotto-terra”. In questi casi, per prima cosa, dobbiamo cercare di tranquillizzarle», aggiunge. Non è facile. Anche il personale deve combattere per tenere a bada lo stress.

Molti dei 6.500 dipendenti vengono dai villaggi del nord e dell’est e devono guidare anche la notte per coprire i turni. Da qui, dunque, l’idea di sessioni di terapia per scaricare la tensione. «Mi mancano l’aria e la luce naturali. L’esperienza però sta andando bene», afferma Khalil, infermiere proveniente da Sahnin, vicino Nazareth. È israeliano di origine palestinese come un terzo degli abitanti di Haifa e dintorni e il 40 per cento dei pazienti del Rambam. Ultra-ortodossi, arabi cristiani e islamici, ebrei laici di origine europea, immigrati africani: nella clinica-bunker sono riunite le diverse minoranze del mosaico israelo-palestinese che il protrarsi della guerra rischia di mandare in frantumi. «Questo incubo va avanti dal 7 ottobre – conclude la vicedirettrice –. Quanto ancora deve durare?».