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San Josè. Cile, il regalo di una nuova vita in fondo alla miniera

Marina Corradi giovedì 16 settembre 2010
Uno dei trentatré della miniera di San Josè, in Cile, ha avuto una figlia. L’hanno chiamata Esperanza, come il villaggio di tende dove i parenti dei minatori si sono attendati: a aspettare ciò che per molti giorni è sembrato impossibile - fino a quando attaccato a una sonda non è riemerso quel biglietto: siamo vivi, stiamo bene. L’hanno chiamata Esperanza, come l’accampamento spuntato dal nulla in una terra di pietre e sassi, dove pure madri e fratelli sperano, “contro ogni speranza”. E il nome di quella bambina, e del villaggio, dove si attende il ritorno di uomini sepolti settecento metri sottoterra – mentre poderose "talpe" trivellano il suolo in un fragore infernale – fa pensare. Viene in mente Charles Peguy: «La speranza, dice Dio, mi stupisce», scrive il poeta; attribuendo a Dio stesso uno stupore, una meraviglia per quei suoi poveri figli che comunque, in ogni circostanza, quando è appena è possibile e perfino quando è impossibile, sperano. La bambina cilena, di cui il giovane padre, Ariel Ticona, ha visto il volto solo in un video inviato sottoterra, è un altro capitolo della infinita storia della speranza degli uomini - che forse commuove anche Dio. Perché è arduo sperare quando hai settecento metri di terra instabile sopra la testa, quando te ne stai schiacciato in pochi metri quadri con altri trenta, pieni di incubi e paura, quando – nel silenzio mortale del sottosuolo – l’unica eco è quella di trivelle mostruose, 30 tonnellate di acciaio scagliate a martellare la roccia. E poi magari, a un tratto – come è  accaduto giorni fa – i motori improvvisamente tacciono, sconfitta la loro forza imponente: uno strato più duro ha infranto perfino il più temprato acciaio. E allora, quando i motori si sono spenti, cosa avranno pensato gli uomini là sotto? C’è, attorno a questi “ultimi” spediti negli abissi per un pezzo di pane, tuttavia ora un movimento singolare e straordinario. Tutte le forze di un Paese, e non solo, spiegate; e una grande attenzione, oltre che a inviare cibo, acqua, medicine, a alimentare, come qualcosa di altrettanto indispensabile, la speranza. Le corrispondenze da Copiapó dicono del fitto intrecciarsi di messaggi e foto, tra le famiglie e i minatori. Dicono anche che quei messaggi sono vagliati, perché non si può permettere che la sfiducia e la disperazione si allarghino nel rifugio. Medici e psicologi vegliano sull’insorgere di stati depressivi, quasi si trattasse di un mortifero virus. Perché sanno che, se sei sepolto sotto terra e ti attendono mesi di prigionia, di speranza hai bisogno più che del cibo. E dunque la ignara bambina venuta al mondo ieri, non poteva che chiamarsi Esperanza. Speranza che, dice ancora Peguy, «non è altro che quella promessa di gemma che si annuncia, all’inizio di aprile». Che sembra, al confronto delle foreste, una cosa da nulla: «Eppure è da lei che tutto viene (..) Senza quella gemma da nulla, tutte le foreste non sarebbero che legno morto». Anche nelle viscere della terra a Copiapó, cibo e acqua e medicine non basterebbero, se gli uomini non sperassero. Anche loro, senza quell’attesa, non sarebbero che legno morto. E noi, non che non siamo in fondo a una miniera crollata, ma pur sempre dentro a una vita apparentemente destinata a finire – così almeno molti ci assicurano – sotto a una lapide: noi, non abbiamo nulla da imparare da Esperanza Ticona Segovia e da suo padre Ariel, 29 anni, che da là sotto guarda sua figlia in video, e sorride? Chissà se ce la farà, chissà se davvero le mostruose talpe d’acciaio sapranno raggiungere lui e gli altri. Quel ragazzo non può esserne certo. Ma nella gioia per la figlia, spera di più. Grato, pure in quel terribile buio, di quella bambina, e di sua madre, e dei compagni che là sopra si affannano per salvarlo. Riconoscendo, come vedendo più di prima – pure in quel buio –  ciò che noi, salvi nelle nostre case piene di sole, spesso non vediamo.