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Medio Oriente. Uriya (israeliano) e Sameh (palestinese): il nostro rap per la pace

Lucia Capuzzi mercoledì 10 gennaio 2024

Il duo formato da Uriya e Sameh ha già pronto un nuovo brano

Uriya Rosenman, professione educatore, è nato nel kibubtz di Asaret 33 anni fa da una famiglia sionista. Il nonno, Yoram Zamosh, è stato uno dei parà che hanno piantato la bandiera israeliana sul Monte del tempio, strappandolo alla Giordania nella Guerra dei sei giorni. Lo stesso Uriya ha svolto il servizio militare in un’unità speciale delle forze armate (Tsahal, dall’acronimo). Il 7 ottobre ha perso vari amici, massacrati da Hamas. Sameh Zakout, attore e cantante 39enne, è un palestinese di Ramle, una delle otto “città miste” dello Stato ebraico. Là si è rifugiata la famiglia dopo la cacciata da Isdud, attuale Ashdod, durante la guerra del 1948. Altri parenti sono andati a Gaza e molti sono stati uccisi nell’offensiva scatenata da Tsahal in risposta alla strage del gruppo islamista.

«Potevamo diventare parte del meccanismo bellico in cui sembrano sempre più avviluppati israeliani e palestinesi. Nonostante gli sforzi dei nostri leader di farci credere il contrario, seguitiamo, invece, a vedere l’altro come un essere umano, non un nemico», dice Uriya, nel giardino della casa di Asaret dove si trova per qualche settimana durante una pausa del master che da luglio frequenta nel prestigioso ateneo di Harvard. Anche dagli Usa, però, continua a seguire il progetto “Dugri” – “Essere onesti”, sia in arabo sia in ebraico - che, dal 2020, porta avanti con Sameh. Oltre alla distanza, la loro collaborazione professionale e, soprattutto, la loro amicizia, ha resistito al dramma del 7 ottobre. «Certo che siamo ancora amici, vero “bro”?», scherza Sameh rivolgendosi a Uriya con la forma abbreviata di “brother”, fratello in inglese, secondo il gergo dei rapper.

Uriya e Sameh si salutano toccandosi il pugno alla moda dei rapper - Dugri

Eppure, al principio, il loro rapporto è stato difficile. All’epoca Uriya aveva iniziato a uscire dalla “bolla” in cui tanti suoi connazionali sembrano imprigionati. E a cercare di scoprire “il pezzo mancante” della storia: la versione dei vicini, così geograficamente prossimi eppure ancora tanto lontani. «Un giorno mi sono imbattuto nel brano del rapper statunitense Joyner Lucas “I am not a racist” sugli stereotipi nei confronti dei neri nella società Usa: è un pugno nello stomaco. Ho deciso che volevo fare qualcosa di simile per aiutare israeliani e palestinesi a colmare il fossato che li divide. Ho viaggiato in lungo e in largo nel Paese cercando di indagare le radici dei nostri pregiudizi». Dopo due anni, però, si è reso conto che per essere credibile, questo lavoro doveva essere fatto insieme a un collega palestinese. Un amico l’ha messo in contatto con Sameh. «Al principio non mi fidavo. Mi sembrava l’ennesimo intento di normalizzare il conflitto e l’occupazione. Per questo mi ha sorpreso l’autenticità di Uriya e la sua voglia di mettersi in discussione. Certo, abbiamo impiegato mesi per costruire una fiducia reciproca». In questi dialoghi fiume è maturato “Let’s talk straight”, “Parliamo chiaro”: un video di sei minuti in cui i due si “sbattono in faccia”, a ritmo di rap, le reciproche incomprensioni. «Dove ci sono arabi ci sono attacchi terroristici. Ma non sono razzista, il mio giardiniere è arabo», canta Uriya e Saleh risponde: «Voi ebrei avete dimenticato che cosa significhi essere minoranza (...) Non ci volete vicini ma costruiamo le vostre case». Pubblicato su Youtube nel maggio 2021, il filmato ha ottenuto milioni di visualizzazioni, spingendo i due artisti a dare vita a un vero e proprio movimento sociale in cui il rap diviene strumento di cambiamento. “Dugri”, appunto.

Uriya e Sameh collaborano dal 2020 - Dugri

«È la musica più popolare soprattutto fra i giovani e giovanissimi. Questi ultimi hanno accesso a una quantità infinita di informazioni che consentirebbero loro di comprendere la realtà ma, spesso, non sanno distinguere le fonti affidabili dalle fake news e finiscono per cedere alle narrative semplificanti. Utilizzando un linguaggio che capiscono, il rap appunto, vogliamo aiutarli a andare oltre i luoghi comuni», afferma Uriya. «In questo momento ovviamente è più difficile farci ascoltare – aggiunge Sameh –. La tentazione di farsi prendere dal radicalismo dominante è forte». Dugri, però, non molla. Uriya e Sameh hanno già pronta “Reason”, ragione, in ebraico “siba” e in arabo “sabab”. Una preghiera mutua che alternando le due lingue ricorda le profonde somiglianze fra i due popoli. «Stiamo aspettando che cali l’ondata emotiva per lanciarlo. Tanti ci criticano, pensano che siamo degli ingenui – conclude Uriya –. In realtà siamo profondamente consapevoli dei problemi anche perché li viviamo sulla nostra pelle. Come diciamo in “Let’s talk straight”, però, sappiamo che nessuno dei due popoli ha un altro Paese in cui vivere. Ci tocca cambiare questo, costruendo un futuro migliore per entrambi».

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