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LE FAMIGLIE. Il dolore e il lutto sono il pianto di Martin

Pino Ciociola martedì 22 settembre 2009
Sulla testa ha messo il basco amaranto del papà. Nella mano destra ha un fazzolettino di carta ma non importa, la porta lo stesso sul lato della fronte, nel saluto militare, e la tiene tutto il tempo – che sembra allungarsi quanto una vita – durante il quale risuonano nella Basilica le note struggenti del Silenzio fuori ordinanza. Martin ha sette anni: è il figlio di Antonio Fortunato che, insieme a cinque parà come lui, giace ai piedi dell’altare di San Paolo fuori le Mura. Dentro una bara avvolta nel Tricolore.È Martin in qualche modo questo funerale. Alle undici in punto i feretri entrano nella chiesa e in un applauso, portati a spalla dagli uomini della Folgore, che li poggiano sul tappeto. Sei ufficiali sistemano con cura su un cuscino di raso rosso i berretti, poi salutano e vanno a sedersi. Il rito deve ancora cominciare. È un attimo: adesso Martin si alza dalla sua sedia, raggiunge da solo la bara del papà e, sorridendo, la sfiora con la sua mano. Esplode il rumore d’una raffica di scatti insieme ai lampi di luce dei flash: eccola, l’immagine di questa mattina da consegnare alla storia (dopo che ai rotocalchi). Ma è un attimo anche perché lui torni a sedersi, scoppiando a piangere appena un passo prima d’aver raggiunto il suo posto, appena un passo prima d’andarsi a rifugiare nelle braccia della mamma.I parenti dei sei ragazzi con le stellette massacrati giovedì scorso a Kabul sono seduti ai lati destro e sinistro delle bare. Sono tanti, di ogni età. Grondano dignità e dolore. Non è tempo di parole da parte loro e poi per loro parlano le preghiere. I loro occhi e lo sguardo. Le loro stesse mani più d’ogni altra cosa, spesso strette l’una nell’altra o la propria con quella del padre o della madre o della sorella seduti accanto. Urla, seppure tacendo, quella mamma che tiene, senza lasciarla mai, la foto del figlio sul petto, e spesso la bacia, spesso l’accarezza. Per questi genitori e figli e mogli e fidanzate sussurrano certe lacrime silenziose, tolte via con un gesto veloce della mano. E le loro teste che a tratti si vedono abbassarsi sotto il peso della sofferenza e della fierezza.Martin ha già indossato il basco del papà quando, in piedi, è vicino a Gianfranco Paglia (ex-parà, costretto su una sedia a rotelle dopo essere rimasto ferito in Somalia nel 1993) mentre legge la Preghiera del paracadutista: «Benedici, o Signore, la nostra patria, le famiglie, i nostri cari. Per loro, nell’alba e nel tramonto, sempre la nostra vita. E per noi, o Signore, il tuo glorificante sorriso». Il silenzio è terribile, una pesante cappa sul cuore. Squarciato, finalmente, alla fine della Preghiera, dall’applauso che parte proprio dai banchi dei familiari e si allarga – in un istante – a chiunque è qui dentro.Un papà si sente male. Dimostra sessantacinque anni almeno o forse è il dolore a dargliene di più. Lo fanno bere, lo aiutano a uscire dai banchi, lo accompagnano in un’ambulanza all’esterno della Basilica. Lo visitano. Non vuole restare lontano, si riprende e poco dopo rientra, al suo posto. Da suo figlio.La cerimonia si conclude: questi sei ragazzi sono stati salutati, con ogni onore, un’ultima volta e raccomandati al Padre, le loro bare sono state benedette. Escono nuovamente sulle spalle dei loro commilitoni, con le famiglie che li seguono. Stanno per salire ognuno su un carro funebre che li porterà nei rispettivi paesi e città di nascita. Ma, prima, il rombo delle Frecce Tricolori sotto le nuvole che sorvolano due volte a bassa quota la Basilica, il loro fumo verde, bianco e rosso, sono un’altra emozione che, qui, è ancora più profonda. Martin alza la sua testa per guardare affascinato: è anche lui fuori dalla Basilica dietro la bara del papà, continua a tenere il basco amaranto. Qualcuno ora gli ha voluto mettere sulle spalle una bandiera italiana: lui se l’è annodata, davanti, perché non scivoli via.