Il «desiderio di un avvenire migliore» soffia forte negli ultimi mesi in Siria e in tutta l’area del Mediterraneo sollevando una domanda di riforme. Avvenimenti che dimostrano «l’urgente necessità di vere riforme nella vita politica, economica e sociale». Una evoluzione ancora in corso che, auspica Benedetto XVI, si potrà compiere solo evitando «intolleranza, discriminazione» e a maggior ragione la «violenza». Una “Road map” per le riforme consegnata da Joseph Ratzinger alle autorità di Damasco tramite il nuovo ambasciatore siriano presso la Santa Sede, Hussan Edin Aala, che ieri presentava le sue credenziali; un appello a tener conto delle «aspirazioni della società civile», comprese quelle della comunità cristiana da sempre impegnata in campo sociale ed educativo oltre che nel dialogo interreligioso. Un cammino che necessariamente Damasco dovrà compiere tenendo conto pure delle «istanze internazionali». Per l’intera regione, conclude Ratzinger, serve una soluzione globale «frutto di un compromesso e non di scelte unilaterali imposte con la forza». Un accordo che la comunità internazionale fatica più che mai a raggiungere: nei prossimi giorni andrà in votazione al Consiglio di Sicurezza una bozza di risoluzione sulla Siria preparata dalla Gran Bretagna d’intesa con la Francia, e appoggiata da Germania e Portogallo. Ieri pure Washington ha dato il suo sostegno alla risoluzione che condanna le violazioni «sistematiche» dei diritti umani e chiede di porre fine alla repressione dei civili. Un possibile nuovo giro di vite internazionale contro Damasco che ha subito incassato l’altolà di Russia e Cina. Mosca, ha fatto sapere un portavoce, è contraria a qualsiasi risoluzione perché la Siria «non rappresenta una minaccia per la pace e la sicurezza internazionale ». Scettici su nuove condanne e sanzioni, ma più possibilisti, i delegati di Sudafrica e Libano. Le schermaglie diplomatiche al Palazzo di Vetro non possono sciogliere la crescente tensione a Damasco e in tutte le principali città siriane alla vigilia di un nuovo giorno di protesta: come da tre mesi a questa parte il tam tam dei social network chiama a raccolta gli oppositori per quello che sarà chiamato il “Venerdì delle tribù”. Il sito “The Syrian revolution”, uno dei simboli della rivolta, preannunciava ieri una nuova ondata di proteste promossa dalle tribù di Daraa, Suweida e Quneitra, e forse anche di Aleppo. L’ennesima sfida al regime che «deve sapere che tutti gli elementi della società gli sono contrari ». Intanto a Homs, presidiata dall’esercito, in alcuni quartieri manca l’energia elettrica e i carri armati pattugliano i viali centrali: la resistenza ha risposto abbassando le saracinesche in segno di protesta mentre, secondo i siti dell’opposizione, sono sempre più numerosi i dissidenti che nella notte – come a Teheran nel 1979 – salgono sui tetti al grido di «Allahu Akbar». Se c’è chi si mobilità, aumentano pure quelli che fuggono oltre il confine turco. Sono già 2.400 i rifugiati, quasi tutte donne e bambini, che hanno lasciato Jisr al-Shughur, città della Siria settentrionale presidiata dall’esercito dopo gli scontri dei giorni scorsi costati la vita ad almeno 120 uomini delle forze dell’ordine. Gli sfollati sono stati accolti nella tendopoli di Hatay ma, riferiscono alcune testimonianze, ci sarebbero almeno 5-6mila persone in attesa di passare la frontiera.