Inaspettato, costruito nel silenzio, fondato su giustificazioni e su pretesti grandi quanto la scala continentale che è propria dell’India. Il Muro – o, come viene definito qui, Zero Line – cresce settimana dopo settimana verso i 4.100 chilometri complessivi previsti lungo quella che è la più estesa frontiera dell’Asia meridionale, tra India e Bangladesh. Obiettivo dichiarato da New Delhi: allontanare dal suo territorio la minaccia del terrorismo islamico, abbattere il contrabbando transfrontaliero e la consistente tratta di esseri umani che vi si svolge. Avviata nel 2000, la doppia barriera di quattro metri d’altezza, cemento, rete metallica e filo spinato, dovrebbe rendere impermeabile il confine ed evitare che i numerosi contenziosi tra i due Paesi diventino causa di un conflitto più volte sfiorato. Né lingua né etnia distinguono le popolazioni ai due lati del muro e la comune cultura bengalese, quella che ha espresso il premio Nobel per la letteratura Rabindranath Tagore e quello per la pace Muhammad Yunus, li avvicina più di quanto le diverse fedi (indù e islamica) li divida. Tuttavia, il flusso di immigrati irregolari dal Bangladesh verso l’India, da un lato, e la presenza di almeno 100mila coltivatori indiani sul territorio bangladeshi dall’altro restano una miccia sempre innescata che New Delhi non può ignorare. Eredità di una nascita tormentata e della difficoltà di aprire un tavolo concreto di trattativa che superi stereotipi e opportunismo politico, le numerose piccole enclave di una nazione nel territorio dell’altra costringono interi villaggi a una convivenza o a un’accettazione altrettanto forzate; alimentano sospetti e tensioni ma anche lucrosi traffici e illegalità diffusa. Sono soprattutto gli indiani che vivono all’ombra del muro ma in suolo bangladeshi a temere per i loro beni e per la loro terra una volta sigillati fuori dalla madrepatria. I loro vicini, d’altra parte, figli di una patria dal territorio che è la metà di quello italiano ma sovrappopolato di 140 milioni di abitanti, hanno poco da perdere e ancor meno da temere. Sulla carta, Zero Line dovrebbe essere una barriera concreta, rafforzata dalla vigilanza di 60mila effettivi dell’esercito, nei fatti risulta una formalità, da aggirare ovunque possibile lontano dagli occhi delle guardie di frontiera indiane, soprattutto nel settore orientale, dove il contrabbando è fiorente e perlopiù impunito. Difficile distinguere cittadini indiani e bangladeshi, spesso ugualmente senza documenti oppure con identità facilmente reperibili a pagamento. Ancora più difficile segregare le due parti di comunità cresciute fianco a fianco, sulla stessa terra, condividendo servizi, approvvigionamento d’acqua, strumenti di lavoro e luoghi di culto. Il contrabbando, poco importa se di persone, merci, armi o bovini (ben 700mila i capi esportati dall’India illegalmente per essere macellati nel musulmano Bangladesh) garantisce il sostentamento di molte famiglie e di interi villaggi, sotto gli occhi a volte compiacenti a volte impotenti delle guardie di frontiera indiane e bangladeshi. I provvedimenti di spostamento coatto di intere comunità per rendere efficace la separazione fisica garantita dalle barriere sono rimasti finora sulla carta. Un problema concreto quello del flusso di irregolari dal povero e sovraffollato Bangladesh verso il grande vicino. Nei fatti, seppure ridotto rispetto al passato (da 65mila immigrati annui un decennio fa ai 10mila attuali, successo attribuito ufficialmente alla costruzione del muro), si è moltiplicato a partire dal primo massiccio arrivo di 4 milioni di persone nel 1971, alla nascita del Bangladesh, ex Pakistan Orientale, sotto l’ala protettrice dell’India. Altri tempi quelli in cui ragioni strategiche consigliavano a Indira Gandhi di favorire con un intervento militare diretto l’indipendenza della 'colonia' del Pakistan attuale, distante 1.600 chilometri, diversa da tutto, unita solo dalla fede in Allah. Oggi l’India vive direttamente il terrorismo islamico che va annidandosi tra le sue folte comunità musulmane e che dall’estero riceve sostegno, propaganda e nuove reclute. New Delhi accusa il governo di Dacca di tolleranza se non di accondiscendenza verso i gruppi indipendentisti attivi negli Stati di Assam, Manipur, Meghalaya e Mizoram – che oltre il confine trovano santuari e facili rifornimenti – e al contempo di non bloccare l’esportazione dell’islam nella sua forma radicale e violenta. In particolare, quella propugnata dall’Harakat al Jihad Islamiya, ai primi posti nella lista del terrore che guarda all’India. Una presenza musulmana estremistica che, capace di forti azioni dimostrative nei due Paesi, in Bangladesh resta ancora minoritaria ma che già si rivolge al vicino indiano per avere un palcoscenico di maggiore efficacia alla propaganda jihadista.