Usa. Non solo Ucraina e Medio Oriente: il mappamondo di Trump in 8 punti
Un murales sugli Usa
America first. Quindi, durante i primi 100 giorni di Trump in carica, i repubblicani (o ciò che resta ormai del partito che è tra i beni disponibili del tycoon) «consolideranno i tagli fiscali di Trump», poi «libereranno l’energia americana» e anche «aumenteranno sensibilmente le risorse al confine meridionale». Lo dicono i vertici del Gop riferendo i piani di battaglia dei vincitori della sfida elettorale per la Casa Bianca, per il Senato e che si avviano a fare il grande slam con il controllo anche della Camera. Esauriti i primi passi e onorate le prime promesse “domestiche”, l’Amministrazione Trump dovrà poi uscire dal guscio. E affrontare le sfide globali, che vanno a contrastare il fatto di concentrare ogni risorsa disponibile per rendere l’America di nuovo grande (Maga). Quello che serve a Trump oltreoceano è invece un vero e proprio “mago”. Deve chiudere la guerra in medio Oriente in corso da oltre un anno e quella in Ucraina che si avvia alla fine del terzo in «pochi giorni». Deve dire come si comporterà davanti alla mire cinesi di monopolizzare il Sudest asiatico e di mettere le mani sull’ultima isola “ribelle”: Taiwan. Domare la voglia di «abbeverare i cavalli» nella fontana di San Pietro di Vladimir Putin, ricondurre a più miti consigli gli europei e fare affari in America Latina e Africa, terreno di caccia di troppi potentati. Il tutto dovrà farlo in meno di due anni, perché poi ci saranno le elezioni di Midterm che, di solito, “azzoppano” ogni presidente.
Ucraina
Fare «concessioni» a Vladimir Putin sarebbe «inaccettabile» per l'Ucraina e «suicida» per l’Europa, ha detto ieri il presidente ucraino Volodymyr Zelensky. Il riferimento è alle asserzioni ripetute da Trump sulla conclusione «in un giorno» del conflitto che dura quasi da tre anni. Zelensky ha anche telefonato al repubblicano: «Non possiamo però ancora sapere quali saranno le sue azioni specifiche», ha abbozzato. La verità è che un piano del miliardario non esiste, anche se in campagna elettorale ha detto che la guerra sta costando troppo e che tocca all’Europa finanziarla.
Europa
L’Atlantico si allarga. E cresce la distanza tra Washington e l’Europa. Con l’aumento annunciato da Trump del 10-20% dei dazi doganali su tutte le merci importate, in funzione di barriera protezionistica per il made in Usa, a rimetterci sarà l’export europeo. Scricchiola anche la Nato, dalla quale il tycoon minaccia il disimpegno: agli alleati europei chiederà quanto meno di contribuire alle spese con il 2% del Pil. E se gli Usa smetteranno di finanziare l’Ucraina, l’Ue sarà a un bivio: mettere pesantemente la mano al portafogli o trovarsi alle porte uno Stato smembrato e alla deriva, con la Russia che preme.
Africa
Come i suoi predecessori, anche Trump probabilmente continuerà la linea del “disinteresse”: aiuti allo sviluppo “strandard” mantenendo cifre simili a quelle degli anni precedenti, pochi interventi diretti e unico impegno quello di tenere se possibile limitate le azioni dei gruppi jihadisti nella regione del Sahel con azioni spopradiche. Durante il suo primo mandato, il tycoon non ha mai visitato il Continente e ha addirittura ridotto gli investimenti, favorendo una politica di “America first”. Il risultato è stato, anche nella gestione Biden la crescita della presenza dei gruppi paramilitari russi in appoggio a golpisti e di gruppi economici cinesi.
Russia
La possibilità di una «comunicazione» tra il presidente russo Vladimir Putin e il presidente eletto degli Stati Uniti Donald Trump prima della cerimonia di insediamento del 20 gennaio «non è esclusa», si è affrettato a dire ieri il portavoce dello zar Peskov. Uno zelo che tradisce invece il “silenzio” di facciata del Cremlino che ha fatto sapere che non risponde a verità la notizia di «auguri informali» inviati a Mar-a-Lago. Che Putin tifasse per The Donald era noto, come i fato che il nuovo rapporto tra la Casa Bianca e il Cremlino passerà dall’accordo sull’Ucraina. Magari con una posizione di Trump che si discosterà, vorrebbe Mosca, da quella europea.
Cina
Il presidente cinese Xi Jinping si è affrettato ad inviare le sue congratulazioni al presidente eletto, auspicando «una relazione stabile, sana e duratura tra Cina e Stati Uniti, in linea con gli interessi comuni dei due Paesi e con le aspettative della comunità internazionale». Ma in Cina non si fanno troppe illusioni. Nel suo precedente mandato, Trump ha scatenato la guerra commerciale, ha incolpato la Cina per il Covid-19 e ha lanciato una violenta campagna contro lo spionaggio economico. E ora sventola la minaccia dei dazi al 60% su tutti i beni cinesi.
Corea del Nord
Nel suo precedente mandato, Donald Trump ha incontrato per ben due volte il dittatore nordcoreano, Kim Jong-un. Anche se i faccia a faccia non hanno portato a risultati concreti (e anzi il gioco al rialzo di Kim è proseguito, con tanto di martellante minaccia nucleare), tra i due leader si è creato un clima di «grande sintonia», come ha detto più volte il tycoon. Trump potrebbe quindi nuovamente tirare dal mazzo la “carta” Kim. Una possibilità che Seul vive con grande preoccupazione, temendo di essere tagliata fuori dagli eventuali negoziati. Non solo: Trump ha anche proposto di ridurre le forze Usa nella Penisola.
Medio Oriente
Netanyahu e l’ultradestra israeliana hanno festeggiato il «più grande ritorno della storia»: ai loro occhi Donald Trump è l’alleato necessario per proseguire l’avanzata in Cisgiordania e avere mano libera a Gaza. A una condizione, però: fare in fretta in modo da chiudere i fronti aperti entro l’inizio del mandato. Sulla pacificazione del tycoon aleggia l’ombra dell’Iran. Finora, Washington è riuscita a frenare Teheran con la promessa di una riduzione delle sanzioni e di una ripresa del negoziato sul nucleare, demolito proprio da Trump. Come si regolerà ora quest’ultimo? Un’ipotesi è il ricorso “all’amico” Putin, vicino a Teheran.
Taiwan
Fedele al suo pragmatismo (e ai suoi modi “spicci”), Trump ha usato spesso toni aspri nei confronti di Taiwan, finita sempre più nei radar della Cina. A giugno il tycoon ha chiesto all'“isola ribelle” di «pagare per la protezione» degli Stati Uniti («non siamo così diversi da una compagnia di assicurazioni»), ha eluso la domanda se avrebbe difeso l'isola da una eventuale azione militare di Pechino e ha accusato Taipei di fare concorrenza agli States nel settore strategico della produzione dei chip. Per gli analisti, Taipei dovrebbe prepararsi a un più “debole” impegno degli Usa nella regione.