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Analisi. Il mercato dell'energia dietro la scelta di Mosca

Fulvio Scaglione venerdì 29 agosto 2014
La domanda viene istintiva, dopo l’evidente escalation dell’intervento militare russo nell’Ucraina dell’Est: perché adesso? Ma la domanda vera è ancor più breve: perché? Perché Vladimir Putin ci sorprende ancora, e in modo così violento? Fino a qualche giorno fa i giornali lo davano in caduta libera, alle prese con un bilancio statale traforato dai costi dell’annessione della Crimea e dal peso delle sanzioni europee e americane, assediato dallo scontento di oligarchi fedeli soprattutto al portafoglio, isolato rispetto al mondo civile. Oggi, i suoi generali aprono un terzo fronte in Ucraina, occupano la città di Novoazovsk sul Mare di Azov e minacciano Mariupol, mettendo così in prospettiva la creazione di una fascia di “nuova Russia” capace di unire, da Nord a Sud, il Donbass con la Crimea occupata-liberata. Se il progetto fosse questo, e andasse in porto, all’Ucraina toccherebbe la sorte già patita dalla Georgia con l’Abkhazia e dalla Moldavia con la Transdnistria, cioè la sottrazione di una parte del territorio destinato dal Cremlino a creare una zona di tutela dell’interesse russo e della fedeltà a Mosca della popolazione russofona e russofila. Il rischio è grosso. Impossibile che Obama e gli Usa, pure impegnati a rincorrere i propri errori in Medio Oriente, restino indifferenti all’appello del premier ucraino Iatseniuk, che chiede un embargo economico totale nei confronti della Russia. Difficile che l’Unione Europea, pure ostile alle soluzioni militari, non corra al sostegno del presidente Poroshenko, che le chiede di aprire gli arsenali. E quindi, di nuovo: perché? Una possibile risposta, secondo noi, va rinvenuta nella vera costante della politica estera dell’era Putin, cioè dalla fine degli anni Novanta a oggi: proteggere a tutti i costi il mercato dell’energia e le vie di trasporto e commercio di gas e petrolio. Com’è noto, il nuovo zar teorizzò fin dalla tesi di dottorato il fatto che le risorse energetiche della Russia non potevano essere lasciate all’iniziativa privata, all’arbitrio degli imprenditori, ma dovevano diventare strumento di arricchimento del Paese e braccio armato della potenza dello Stato. Con coerenza e durezza Putin ha portato avanti questo assunto, facendo della Russia una petro-nazione (il 40% delle entrate federali sono generate da gas e petrolio), migliorando la vita dei russi (per otto anni consecutivi il Pil crebbe di quasi l’8% l’anno, secondo solo a quello della Cina), costituendo coi proventi del petrolio un Fondo di stabilità che arrivò a contenere 600 miliardi di dollari (con cui la Russia si tenne a galla tra 2008 e 20011), riportando il Paese alla ribalta della politica globale. Tutto questo sta in piedi, però, solo se nessun altro Paese raggiunge una posizione tale da condizionare la dinamica dei prezzi o disturbare le rotte delle esportazioni di gas e petrolio. È quanto gli Usa hanno cercato di ottenere con l’invasione dell’Iraq, con l’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan nel Caucaso, fino all’appoggio dato nel 2010 e poi nei mesi scorsi ai movimenti anti-russi e filo-europei in Ucraina. Dopo la cacciata di Yanukovich, un regime ostile al Cremlino ha le mani sui rubinetti che portano il gas russo in Europa, il cliente che più di ogni altro contribuisce a riempire le casse del Cremlino. È lecito pensare, quindi, che aumentando l’impegno militare in Ucraina, e provando a fare del Mar di Azov un mare interno alla Russia, Putin stia immaginando di aprire una via alternativa al suo gas che, raggiunto il Mar Nero, potrebbe dirigersi verso la Turchia (altro grande hub internazionale dell’energia) o verso la Bulgaria, partner decisivo e non ostile al Cremlino nel progetto del gasdotto South Stream. Una grande scommessa, forse solo un grande bluff. Ma ora tocca ad altri “vederlo”.