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Brasile. Il massacro di Manaus e le carceri «senza chiavi»

Giampaolo Silvestri* mercoledì 4 gennaio 2017

La calma è tornata nel carcere del massacro, alla periferia di Manaus. La polizia, però, prosegue senza sosta la ricerca di 144 evasi dalla struttura durante le 17 ore di sangue. Finora, le autorità ne hanno ripresi una quarantina. All’appello, però, ne mancano ancora tanti. L’arcivescovo del capoluogo dell’Amazzonia, monsignor Sérgio Eduardo Castriani, ha espresso profondo dolore per l’accaduto. Scatenato dal conflitto tra le due principali organizzazioni di narcos. Sabato, il pastore celebrerà la Messa di suffragio per le vittime. Mentre l’ausiliare Jose Albuquerque Araújo, in un’intervista al Sir ha esortato la popolazione a operare scelte non violente.

È successo lontano da qui, dall’altra parte dell’Oceano, solo due giorni fa, ma la distanza non riduce la brutalità della notizia: 56 persone sono rimaste uccise in una sommossa generata da tensioni per la spartizione di potere tra detenuti di clan diversi, in un carcere brasiliano, il penitenziario Anísio Jobim, nell’area di Manaus. Tra le vittime, sei sono state decapitate, alcune bruciate. Oltre alle armi da fuoco, sono stati usati machete, bastoni, coltelli. Qualsiasi cosa pur di massacrare. Nel caos della situazione alcuni detenuti sono fuggiti. I social media ne riportano i selfie, dedicati ai poliziotti che li stanno cercando, a dispetto del sangue che si sono lasciati alle spalle. Il penitenziario dove è avvenuta la mattanza è uno dei più duri del Brasile, con un tasso di sovraffollamento di quasi il 200 per cento, percentuale diffusa in molte altre carceri in un Paese che conta la quarta popolazione carceraria del mondo, 600mila detenuti, dei quali quasi 250mila in attesa di giudizio. La vita disumana delle carceri costituisce oggi il problema numero uno in termini di difesa dei diritti umani che il grande Paese latinoamericano è chiamato ad affrontare. Eppure, per tentare la risalita, il Brasile non parte da zero. In questo contesto, tra detenuti condannati per reati gravi, che si mostrano capaci di uccidere con un colpo di machete un compagno di cella, sono in atto esperienze concrete che indicano che una via alternativa è possibile. Sono le Apac, le carceri senza guardie né armi, un’eccellenza che stanno registrando da anni dei risultati interessanti: la recidiva scende fino al 20 per cento, rispetto alla media brasiliana che sfiora l’80.

L’Apac è formalmente un’associazione della società civile senza scopo di lucro che ha come obiettivo l’umanizzazione della pena privativa della libertà, e si pone come alternativa al carcere. La metodologia utilizzata, nata 40 anni fa per opera di un volontario della pastorale carceraria a San Paolo, Ottoboni, oggi è riconosciuta dalla legge brasiliana e praticata dai tribunali di 17 Stati. Il suo metodo si fonda sul fatto che il condannato riconosce di aver commesso un errore e decide di cambiare vita, scontando la pena all’interno delle Apac. Queste sono strutturate con l’obiettivo della risocializzazione effettiva dei condannati: non ci sono né guardie né agenti penitenziari, i “recuperandi”, come vengono chiamati, hanno le chiavi della prigione. I nostri operatori che lavorano dentro queste carceri si domandano se veramente rischiano la vita entrando nelle Apac, dove i detenuti – che hanno commesso reati simili a quelli del carcere di Manaus – possono muoversi, partecipano ad attività di formazione al lavoro, o a laboratori diversi, e sono incaricati essi stessi di curare i luoghi in cui vivono. La risposta sta nei fatti, nella vita che si svolge nelle Apac.

Dal 2009 grazie anche ad alcuni finanziamenti dell’Unione Europea, questo modello è stato oggetto di una scommessa ulteriore, e si va replicando in diversi Stati del Brasile e anche fuori dai confini. Non per idealismo, neppure per utopia. Perché funziona, le persone che scontano qui la pena non sbranano la loro umanità, escono che sono ancora capaci di relazioni buone. E queste carceri convengono a tutti: il costo di costruzione di un posto/persona è un terzo del costo del carcere comune, e quello di mantenimento è dimezzato. Sul muro di un’Apac qualcuno ha inciso la frase: «L’uomo non è il suo errore». Questa la consapevolezza di detenuti e volontari che rende possibili luoghi simili. L’errore non è l’ultima parola, se si costruiscono luoghi nei quali la persona può riscoprire che la ripartenza è sempre possibile.

*Segretario generale di Avsi