Mondo

Stati Uniti. Via da Trump. Migranti verso il Canada

Elena Molinari martedì 14 febbraio 2017

I cortei a Mexico City, non si fermano le manifestazioni contro il bando e il muro di Trump (Ansa)

Le autorità canadesi fanno sapere che la maggior parte dei migranti proviene dalla Somalia, dal Sudan, dall’Iraq, dalla Libia e dall’Eritrea. Tutti, tranne l’ultimo, Paesi che Donald Trump ha etichettato come «posti pericolosi» e «pieni di terroristi », dai quali la sua Amministrazione non vuole lasciare entrare nessuno negli Usa per almeno 90 giorni. Poi passerà alla «selezione estrema». Molti hanno lasciato le loro case in Africa o Medio Oriente da un paio d’anni, puntando ostinatamente verso nord. Prima l’Europa – raggiunta attraverso la Turchia o varcando il Mediterraneo – oppure il Qatar. Qualche mese di lavoro in nero per racimolare abbastanza soldi, poi un volo per l’America del Sud, di solito il Brasile o il Messico. Di lì, la lunga marcia nel deserto, su, fino alla California, il New Mexico o l’Arizona, dove alcuni sono stati arrestati e detenuti per mesi mentre altri sono riusciti a fare domanda d’asilo, ma dove tutti pensavano di avere buone speranze di restare.

L’elezione di Donald Trump è stato il primo segnale che si erano sbagliati. Chi ha preferito aspettare, incredulo di doversi rimettere in cammino, ha deciso di mollare tutto all’indomani del decreto contro i migranti e i rifugiati che il nuovo presidente americano ha firmato il 25 gennaio (poi però sospeso da una corte d’Appello). La nuova destinazione: il Canada del premier Justin Trudeau, che ieri ha incontrato Trump per la prima volta alla Casa Bianca, e che ha promesso di accogliere tutti i profughi che il vicino respingerà. I numeri parlano di un esodo in corso, nonostante l’inverno. Di solito le domande d’asilo presentate in Quebec da migranti giunti dagli Stati Uniti sono un’ottantina al mese. A dicembre sono state 591. Normalmente nel corso dell’estate gli agenti del Quebec intercettano una trentina di persone entrate illegalmente da New York, Vermont e Maine. Ora che i campi sono coperti di neve e le temperature scendono a 10 gradi sotto zero, la polizia reale canadese ne conta tre o quattro dozzine alla settimana. Altrettanti valicano la frontiera dal Minnesota al Manitoba, una delle meno controllate. E ci sono notizie di oltre venti attraversamenti lo scorso fine settimana dal Montana all’Alberta. Questi sono i casi noti. Ma, come dice il sindaco della città di Emerson, in Manitoba, «i contadini hanno paura di quello che troveranno sotto la neve al disgelo».

Il freddo intenso è già costato le dita delle mani a una mezza dozzina di migranti africani che avevano affrontato la traversata nella neve fino al petto con guanti da muratore. Gli ospedali del Quebec dove sono arrivati dopo che un automobilista li aveva soccorsi non hanno avuto altra scelta che di amputare. «Sono sopravvissuti al deserto del Messico, ma non so quanti sopravviveranno alla neve del nord», dice il sergente Harold Pfleiderer della polizia del Quebec. Perché rischiare la vita entrando in Canada illegalmente se il Paese è disposto a concedere loro lo status di profugo? È un accordo in vigore fra Canada e gli Stati Uniti che, paradossalmente, li spinge all’illegalità. Il patto proibisce a un migrante che ha fatto domanda di rifugio politico negli Stati Uniti di presentarsi al confine canadese come richiedente asilo. Può però rivolgere le sue istanze alle autorità migratorie dall’interno del Canada. Un’intesa che apre un deserto di ghiaccio fra i migranti in fuga dagli Stati Uniti di Trump e il sogno di poter, finalmente, trovare una nuova casa.