È tutto giallo, eh? La sabbia del deserto, il cemento, la polvere. Fa impressione, vero? Chi mai si sognerebbe di entrare, sembra la porta dell’inferno…». Marwan ha ragione. Vista da fuori Rafah, con la sua coltre di polvere ocra, non ha niente di invitante. Se è per questo a giro di sguardo non c’è davvero nulla di affascinante in questo lembo estremo della Striscia di Gaza, di qua la periferia diroccata della Rafah palestinese, di là, tremolante come un miraggio lontano, la Rafah egiziana, a sinistra la lunga linea grigia del deserto e l’inizio di quel confine lungo 270 chilometri tra Egitto e Israele che sta diventando l’incubo delle autorità di Tel Aviv e l’ossessione dei militari.Quello che la mia guida Marwan non dice, e come potrebbe altrimenti?, è che improvvisamente il mondo sembra essersi capovolto, i conti non ci tornano, tutto è sottosopra: non solo nessuno ci vuole entrare a Rafah, ma nessuno riesce più a uscire da quando Hamas, che governa la Striscia dal 2007, ha schierato gli uomini delle brigate Ezzedin al-Qassam sul confine, su quel “Corridoio Philadelphia” che da sempre è la valvola di sfogo e di comunicazione con il mondo esterno. Hamas che serra i battenti. Perché? «Ma è semplicissimo: degli egiziani non ci si può più fidare, nella Rafah al di là del confine domina il caos totale, la polizia non controlla più niente, ci sono bande di beduini che intercettano le merci, rapiscono le persone, chiedono il pizzo. E allora abbiamo chiuso la porta. Addio valvola di sfogo».Ora quel confine è presidiato dai duri di Hamas, con i loro treppiede e i binocoli da lunga distanza poggiati sopra, a centellinare ogni metro del confine, nube d’ocra permettendo. Da lontano, non sembrano così diversi dai soldati israeliani. A poche miglia di distanza i soldati con la stella di David hanno la medesima apprensione. All’inizio del mese qualcuno ha fatto saltare parte del gasdotto el-Arish nel Sinai settentrionale, lasciando Giordania e parte di Israele – che dal gas egiziano ricava il 40% del proprio fabbisogno – con un deficit improvviso di energia. Per questo, in deroga agli accordi di Camp David, Netanyahu ha accettato di far defluire 800 soldati dell’esercito egiziano nella zona. La polizia non basta più. Ma nemmeno l’Idf (Israel Defense Forces) sembra sufficiente. Pensiamo solo alla figuraccia rimediata di recente dal direttore dell’intelligence, Aviv Kochavi, che alla vigilia dell’insurrezione egiziana dichiarava davanti alla Knesset: «La stabilità di Mubarak non è in discussione, e i Fratelli musulmani non sono ancora preparati per ambire alla successione». Tutto sbagliato, come si è visto, e ora la pau« ra riaffiora silenziosa, a Tel Aviv come a Gerusalemme, lontane assai da quel confine del Sinai, ma vicinissime psicologicamente a quelle Askhelon, a quelle Sderot abituate a fare i conti quotidianamente con Gaza. Ma per una delle perverse torsioni della Storia, in questo momento Hamas mostra di avere il medesimo patema, le medesime paure, forse i medesimi interessi di Israele di fronte all’incognita egiziana. Come ha detto ieri il premier israeliano, «speriamo per il meglio, ma prepariamoci al peggio». Non scherzano, i signori di Hamas. Asma al-Ghoul, la blogger più famosa della Striscia, ne sa qualcosa. Nel dicembre scorso suo fratello Mustafà è stato arrestato dalla polizia di Gaza per aver preso parte attiva nell’organizzazione no profit Sharek 30 Youth Forum, embrione di quella protesta simbolica che per prima l’anno scorso ha scosso il torpore della Striscia. «Erano tutti giovani – dice – chiedevano di vivere, di essere liberi dalle catene, anche da quelle di Hamas, non solo di Israele». È finita male. Hamas ha compiuto arresti, devastato la sede, accusato i giovani di Sharek «perché secondo loro – continua Asma – insegnano danza, ginnastica e immoralità alle ragazze». C’è bel altro. Un mese fa un giornalista palestinese vicino a Fatah, Muheib a-Nawati, è scomparso dopo il suo arrivo in Siria. Aveva scritto un libro: “Hamas dall’interno”. Non è facile spiegare cos’è diventata Gaza dopo la rivoluzione egiziana. «Una fortezza, certo, Hamas ha molta paura – dice Chantal Meloni, ricercatrice italiana di diritto penale già consulente del Tribunale dell’Aja e di casa a Gaza – perché deve tenere insieme spinte contrapposte: di qua gli estremisti e i radicali, di là la gente che l’ha votata e forse non la rivoterebbe più ma che ora è intrappolata in questa specie di regime. Che va capito fino in fondo, perché anche in Cisgiordania l’Anp di Abu Mazen fa le stesse cose, arresta tortura, soffoca il dissenso». In effetti qualcosa in comune i ribelli di Hamas e i loro fratelli separati di Fatah ce l’hanno davvero: entrambi hanno bastonato di santa ragione i palestinesi che nei giorni scorsi erano scesi in piazza inscenando manifestazioni anti-Mubarak. «La choccante paura della novità, dell’incertezza – spiega Graeme Bannerman del Middle East Institute di Gerusalemme – del non sapere cosa succederà domani. Va compresa anche Israele: trentadue anni di relativa sicurezza alla frontiera grazie agli accordi di Camp David che si sgretolano in tre settimane». Un trattato che a suo modo faceva comodo anche ad Hamas, che con i tunnel di Rafah accumulava un giro d’affari da 600 milioni di dollari all’anno in un’area dominata da una disoccupazione cronica che tocca il 45% e che al tempo stesso ha creato una casta di “signori del tunnel”: mercanti di cemento, di utensili, di benzina che facevano grassi profitti con l’Egitto e con la Striscia, garantendo al contempo la costante manutenzione di quelle gallerie sotterranee (almeno 1200 ai tempi d’oro, oggi solo 500 in attività e solo 100 in funzione). Hamas si limitava a imporre i prezzi politici: 36 centesimi di euro al litro la benzina, contro l’euro e 40 centesimi che fa pagare Abu Mazen in Cisgiordania. «Ma quel meccanismo ora è saltato – dice Chantal Meloni – e la crisi dei prezzi strangola ancora di più la Striscia».Le merci che passano dai tunnel ora costano molto di più, i beduini ci mettono una sovrattassa, non tutto arriva intatto. Nemmeno il cemento, che vediamo uscire dai tunnel in grossi fagotti sbrecciati da cui escono volute grigie che si mescolano alla polvere del deserto e per lo meno offrono una spiegazione certa a quella nube giallognola che sovrasta Gaza, una cappa simbolica che racchiude paure e ipocrisie sopra l’angolo più densamente popolato del mondo. Triste parabola quella di Hamas: quando vinse le elezioni politiche nel 2007 la parola d’ordine era: basta con la corruzione di Fatah. Ora al movimento che fu di Yasser Arafat la Hamas di tre anni dopo somiglia come una goccia d’acqua: divieti, proibizioni, arresti, affari sottobanco, privilegi accordati ai soli dirigenti del partito (gli unici a cui sono state interamente ricostruite le abitazioni colpite nel 2009 dai bombardamenti israeliani durante l’operazione Piombo Fuso). Sembra inverarsi cosi la diagnosi impietosa di Noam Chomsky: il Medio Oriente ha visceralmente paura della democrazia, dell’indipendenza, della libertà di pensiero. Ci sarà mai un’uprising, una sollevazione dentro Gaza? «Non credo – dice la giurista dell’Aja – sono troppo rassegnati, troppo impauriti». Israele lo sa bene, e infatti i suoi timori sono altri. Politici e militari pensano più ad al-Qaeda, ai Fratelli musulmani, alle navi iraniane in navigazione verso Suez, pensano ai terroristi evasi dalle prigioni egiziane e riapparsi sugli schermi delle Tv Hezbollah in Libano o accolti con trionfo a Gaza. E pensano al contagio che si può propagare, come un’onda sismica che attraversa il Sinai e il Negev, nelle terre inquiete di quell’altro vicino fino a ieri considerato sicuro, l’ultimo che gli rimane: la Giordania hascemita. Ed è laggiù, nell’ormai inquieto regno di Abdallah II che stiamo per recarci.