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Il reportage. Missili e bombe sulla tregua: a Gaza quasi 200 vittime in un giorno

Nello Scavo, inviato a Sderot venerdì 1 dicembre 2023

E' di notte che la guerra non è più solo guerra. È conflitto ed è caccia, uomo per uomo. Di giorno le sberle dell’artiglieria mirano a travolgere vite e cose. Nel buio, quando il piombo saetta tracciando scie luminose, è più facile risalire all’origine del fuoco. E annientare le postazioni nemiche. Non è più uno scontro armato solo per cancellare Hamas. È una campagna di conquista, metro per metro. Israele ha rivelato le sue intenzioni: creare una zona cuscinetto sul lato palestinese del confine di Gaza «per prevenire futuri attacchi». Lo ha chiarito il governo in una serie di contatti tra Gerusalemme e alcuni Paesi arabi.

Il destino di Gaza è segnato. Quello della sua gente anche. Almeno 178 morti solo ieri, sostiene Hamas. Fonti ospedaliere ci dicono che bisognerà prepararsi a scrivere 200. Dieci volte di più i feriti. Con i medici che ci chiamavano disperati dall’ospedale europeo di Khan Yunis: «Hanno sparato sul mercato, sono già morti in sei e non è ancora sorto il sole». S’illudeva chi credeva che spezzare il cessate il fuoco avrebbe significato solo un martellamento sul Nord per spingere i civili sempre più a sud, invece sono schiacciati dentro la morsa delle armi e con il confine verso l’Egitto sempre chiuso agli sfollati in cerca di riparo.

Quando arriviamo sulle colline di Nim’Ar, dopo la preghiera islamica del mezzogiorno in una Gerusalemme militarizzata che non ha visto disordini né minacce nonostante l’ennesima chiusura della moschea di Al Aqsa, sul confine nord di Gaza rimbalzano le esplosioni mentre il cielo è attraversato dai razzi lanciati da Hamas sui centri abitati israeliani. “Iron Dome”, la barriera di missili della contraerea , è riuscita ad evitare che gli ordigni piombassero al suolo. Ma il tiro dei miliziani ha messo a dura prova la difesa. A tarda serata un lancio di razzi è stato intercettato anche su Gerusalemme, attraversata dalle vaste esplosioni in aria.

La muraglia di cemento armato e reti elettrificate che circonda il perimetro di Gaza è 50 metri più sotto. Non ci è permesso entrare, ma le deflagrazioni e lo tsunami d’aria e detriti arrivano fino a qui. Anche gli stormi non si vedono più, solo i droni e gli elicotteri d’assalto presidiano a bassa quota, mentre dalla Striscia vengono scoccati i Qassam, i razzi che Hamas lancia a quattro a quattro, graffiando il cielo di artigliate bianche e chiassose. All’interno, dalla barriera fortificata fino al mare che dista meno di dieci chilometri, osserviamo l’immenso campo di battaglia ridotto in cenere fumante. Sembra non ci possa essere anima viva durante le rare pause di silenzio.

Poi d’improvviso una raffica, o lo sferragliare di un carro armato. E la guerra ad altezza d’uomo ricomincia. Era successo prima dell’alba. I jet dell’aviazione israeliana hanno puntato su Gaza, attaccata anche dai torpedinieri in mare e dai battaglioni di fanteria rimasti sul terreno negli otto giorni di tregua armata. Nelle mani dei gruppi fondamentalisti ci sarebbero ancora più di 100 ostaggi. Ma nessuno sa quanti siano ancora vivi. Gli ultimi di cui si è appresa la morte sono Aryeh Zalmanovich, 85 anni, il più anziano tra i civili fatti prigionieri da Hamas il 7 ottobre, e Guy Iluz, 26 anni, residente a Tel Aviv, che partecipava al rave sul confine con Gaza non tornerà vivo dalla prigionia. Le autorità hanno informato la famiglia del ragazzo che lavorava come fonico e direttore di scena e che sarebbe morto in un ospedale di Gaza, forse per le ferite riportate durante la sparatoria di ottobre, oppure a causa dei bombardamenti.

Israele e Hamas si accusano reciprocamente di aver fatto naufragare i negoziati, anche se la Casa Bianca ha puntato l’indice contro i militanti fondamentalisti, affermando che non sono riusciti a produrre una nuova lista di ostaggi da rilasciare per consentire un’estensione della tregua. Le Nazioni Unite hanno messo in guardia: «L’inferno sulla terra è tornato a Gaza», ha dichiarato Jens Laerke, portavoce dell’ufficio umanitario Onu a Ginevra.

Niente come gli ospedali e i cimiteri raccontano una guerra. Il medico italiano della Croce Rossa Internazionale, Paul Ley, è stato risvegliato all’alba dalle esplosioni nel sud di Gaza. Poco dopo stava già ricominciando ad amputare. «Nato nel 2021, colpito stamattina da una scheggia vicino a Rafah nei primi momenti dopo la fine della tregua – ci scrive il chirurgo al termine dell’ennesimo terribile intervento –. Amputazione traumatica bilaterale appena sopra le ginocchia. Suo padre colpito durante lo stesso attacco è stato amputato sotto il ginocchio da una parte sola. Sua madre e gli altri fratelli e sorelle sono morti».

Poco dopo nei pronto soccorso del sud della Striscia arriveranno i corpi di tre giornalisti: Muntassir al-Sawwaf, cameraman per l’agenzia di stampa statale turca Anadolu, suo fratello Marwan, che lavorava come fonico, e il loro collega Abdullah Darwish. Dal 7 ottobre i cronisti uccisi sono 73. E quando il buio scende sulla collina di Sderot, mascherando un’altra notte di battaglia, respirando il tanfo della polvere da sparo, tutti i reporter sanno che quella su Gaza è sempre di più una guerra a riflettori spenti.